Con la crisi di governo il campo largo rischia di finire nel cassetto delle invenzioni non brevettate. Sì perché la grande alleanza con propulsore rosso-giallo, se non definitivamente archiviata è di certo moribonda. La determinazione con cui Enrico Letta aveva difeso, da detrattori interni ed esterni al Pd, il progetto per battere le destre insieme ai grillini è crollata nello stesso momento in cui Giuseppe Conte ha parlato in conferenza stampa due giorni fa.

«La decisione del M5S di non votare la fiducia al decreto Aiuti cambia lo scenario politico», ha detto il segretario dem a Milano, pronunciando per la prima volta parole semi definitive sul “matrimonio” con l’ex premier. «Prendiamo atto di questa scelta, non è la nostra. È una scelta che ci divide». Una dichiarazione accolta con giubilo da tutta l’area “grillino scettica” del Pd, da sempre contraria a un’unione politica considerata contronatura. E in tanti adesso sperano di mettere Letta con le spalle al muro e costringerlo a dare il benservito definitivo all’avvocato.

Ma se dal Nazareno attaccano a testa bassa l’ormai quasi ex alleato, da Campo Marzio di certo non le mandano a dire. Se «si crea una forzatura e un ricatto per cui norme contro la transizione ecologica entrano in un dl che non c'entra nulla, noi per nessuna ragione al mondo daremo i nostri voti», replica a distanza Conte. «Se qualcuno ha operato una forzatura si assuma la responsabilità», aggiunge, continuando a puntare il dito proprio contro i dem, ritenuti i responsabili silenti del cortocircuito in maggioranza, in quanto sostenitori accaniti della norma sull’inceneritore di Roma. Ma fin qui siamo alle sberle date a caldo. E a giudicare dalla durezza dei toni si direbbe che dell’amore giallo- rosso non resta più nulla se non una montagna di cocci che qualcuno dovrà ripulire.

In politica, però, i “se” e i “ma” abbondano e mai nulla può essere considerato definitivo. E per quanto l’alleanza sia davvero malandata e a un passo dall’ultimo respiro, la certificazione del decesso non è ancora arrivata. Anzi, tra un piatto lanciato in faccia e un altro, nelle parole dei leader si possono ancora rintracciare spiragli di speranza. «Il mio appello accorato è che nei prossimi giorni si sia in grado di trovare le motivazioni per dare fiducia al governo Draghi», dice Letta, mentre fuori infuria la bufera. E a chi rivolge il suo appello ( a un passo indietro) se non ai quasi ex amici del Movimento? «Ora ci sono cinque giorni (fino a mercoledì, quando il premier dimissionario si presenterà alle Camere, ndr) per lavorare affinché il Parlamento confermi la fiducia al governo Draghi e l’Italia esca il più rapidamente possibile dal drammatico avvitamento nel quale sta entrando in queste ore», twitta poco più tardi il segretario dem.

In ballo non c’è solo la stabilità dell’esecutivo, da sempre tratto distintivo del Pd, ma anche il futuro politico di Letta. Perché se Conte ha deciso di lanciarsi in mare aperto correndo il rischio di finire alla deriva, il successore di Zingaretti sa che con i 5S fuori dal perimetro degli “alleabili” rischia anche lui l’osso del collo (politicamente parlando, s’intende). Le ragioni sono molteplici. Tanto per cominciare nel suo partito sono in tanti a voler “processare” la strategia del segretario che, in continuità col suo predecessore, si è incaponito sulla necessità di abbracciare i grillini. Del resto, i pretendenti al trono del Nazareno, lo stesso sul quale Letta si sedette senza passare per un congresso, non mancano e all’occorrenza si faranno certamente avanti. Anche perché se, come probabile, l’ultimo tentativo di portare a più miti consigli Conte naufragasse l’unico sbocco sarebbero le elezioni. Ed è così che si arriva alla seconda e ancora più urgente ragione che spinge Letta a non spezzare definitivamente il filo col Movimento. Se si tornasse alle urne con l’attuale legge elettorale, infatti, il Pd senza Movimento sarebbe condannato a sconfitta certa.

Il Rosatellum costringe i partiti a coalizzarsi per poter competere e proprio per questo motivo, viste le condizioni di salute degli avversari, il centrodestra non avrebbe alcun interesse a cambiare la legge in senso proporzionale mancando un goal a porta vuota. Senza Conte, a Letta non resterebbe che “apparentarsi” con i vari Calenda, Renzi e Di Maio. Personalità politicamente affini, anche se particolarmente litigiose, ma elettoralmente poco pesanti. Il rischio è che Meloni, Salvini e Berlusconi abbiano i numeri per governare da soli. E il segretario verrebbe “azzannato” dai compagni di partito.

Insomma, l’imbuto in cui si è cacciato Conte rischia di essere lo stesso in cui è finito Letta. Forse anche per questo, nonostante lo strappo romano, nessun ordine di dietrofront è arrivato in Sicilia, dove a contendersi alle primarie il titolo di candidato governatore restano Barbara Floridia (M5s), Caterina Chinnici (Pd) e Claudio Fava (Cento Passi). L’appuntamento con gli elettori del centrosinistra è fissato per il 23 luglio. Sempre che per quella data esisterà ancora questo centrosinistra.