I boia di Teheran l’hanno impiccata all’alba. Dopo una settimana di isolamento e dieci anni trascorsi nel braccio della morte, Samira Sabzian, la sposa-bambina condannata per l’uccisione del marito nel 2014, non ha ricevuto alcun “perdono” ed è stata giustiziata. A nulla sono valsi gli appelli internazionali: contro di lei è stata applicata la Qisas, un’interpretazione della legge coranica da parte del clero sciita che si potrebbe tradurre con “restituzione equivalente”, una norma modellata sull’antica antica legge del taglione babilonese.

L’hanno impiccata all’alba i boia di Teheran. A nulla sono serviti gli appelli internazionali dei gruppi per i diritti umani e i severi moniti delle Nazioni Unite. Dopo una settimana di isolamento e dieci anni trascorsi nel braccio della morte, Samira Sabzian, sposa-bambina condannata per l’uccisione del marito nel 2014, non ha ricevuto alcun “perdono” ed è stata giustiziata nella prigione Ghezel Hesar, alla periferia della capitale.

Contro di lei è stata applicata la Qisas, un’interpretazione della legge coranica da parte del clero sciita che si potrebbe tradurre con “restituzione equivalente”, una norma modellata sull’antica antica legge del taglione babilonese.

Quando Samira fu data in sposa era il 2009 e lei aveva 15 anni, il marito era un uomo adulto e brutale che ogni giorno le imponeva un calvario di violenze domestiche, maltrattamenti, torture e abusi sessuali. Dopo quattro anni di convivenza nel 2013 Samira uccide il marito. Le autorità la arrestano e, dopo il solito processo-farsa, la condannano a morte per omicidio volontario. La detenzione nel braccio della morte per Samira è stata un vero e proprio supplizio; traumatizzata, ha perso progressivamente l’uso della parola, sprofondando nell’afasia mentre negli ultimi tempi non riusciva neanche a camminare in modo corretto, tanto che è stata portata al patibolo in sedia a rotelle, altro truculento dettaglio sul sadismo giudiziario del regime degli ayatollah. In questi dieci anni di attesa non ha mai potuto incontrare i suoi figli di 11 e 15 anni, che ha visto una sola volta, poche ore prima dell’esecuzione.

L’unica speranza di sfuggire al boia era il perdono dei familiari della vittima o dei suoi eredi, un’opzione prevista dal codice penale islamista denominata diya, che significa letteralmente “prezzo di sangue”. In sostanza si tratta di una trattativa economica per giungere a un risarcimento materiale ed è applicato principalmente agli omicidi non volontari. In alcuni casi la diya viene concessa al termine di una penosa e macabra messa in scena dei funzionari di giustizia che simulano l’esecuzione in tutte le sue fasi fino alla messa del cappio al collo per poi interromperla all’ultimo istante con un annuncio del direttore del carcere.

Esecuzioni abortite che lasciano ferite profonde nella psiche delle persone condannate. Oltre all’Iran, questo metodo è frequente anche in Pakistan, Arabia saudita e Emirati arabi uniti. Nel caso in cui i familiari non accettano il risarcimento si procede con l’esecuzione alla quale possono partecipare in modo attivo, aiutando il boia. Per esempio scalciando lo sgabello su cui poggiano le gambe della persona giustiziata.

«Samira è stata vittima di anni di apartheid di genere, matrimoni precoci e violenza domestica, e oggi è caduta vittima della macchina omicida di un regime incompetente e corrotto», ha commentato Mahmood-Amiry Moghaddam, direttore di Iran Human Rights (IHR) una ong per i diritti umani con sede in Norvegia.

La tragica storia di Samira Sabzian assomiglia a quella di tante altre donne iraniane costrette a sposarsi giovanissime contro la propria volontà, piombando quasi sempre in un inferno di abusi e violenze, un fenomeno molto diffuso nelle aree rurali del Paese dove il reddito e l’istruzione sono più bassi, ma protetto dal codice civile (articolo 1041).

L’età minima legale è infatti di 13 anni per le donne e di 15 per gli uomini previo consenso dei familiari, ma questi limiti sono spesso violati allegramente; stando alle cifre ufficiali dell’Istituto nazionale di statistica iraniano, nel 2021 quasi 32mila bambine tra i 10 e i 15 anni hanno contratto un matrimonio. Una cifra in costante crescita e in controtendenza rispetto al resto del mondo dove, negli ultimi dieci anni, il numero di spose-bambine è diminuito del 15% (fonti Unicef).

Nel 2020 il Parlamento aveva discusso una modifica della legge di protezione dell’infanzia che alzasse i limiti di età, la proposta era stata presentata dai deputati riformisti, ma i conservatori vicini alla guida suprema Alì Khamenei la bocciarono senza appello, spiegando che Maometto (Muhammad) ha sposato la sua terza moglie, Aisha, quando lei aveva appena nove anni (sic).

Tra le classi sociali più povere “offrire” la propria figlia in dote a famiglie più agiate è un metodo collaudato per sfuggire all’indigenza, una pratica su cui gli ayatollah chiudono entrambi gli occhi e che costituisce una terribile condanna per migliaia di bambine iraniane. Secondo il codice penale iraniano tutti i cittadini condannati per omicidio devono essere giustiziati perché si tratta di un reato che non prevede circostanze attenuanti.

Nel 2023, almeno 18 donne sono state giustiziate nella repubblica sciita. Secondo l’ultimo esaustivo rapporto di Iran Human Rights sulle donne e la pena di morte presentato in occasione della Giornata mondiale contro la pena capitale nel 2021, almeno 164 donne sono state giustiziate tra gennaio 2010 e ottobre 2021.

Nel 66% dei casi di omicidio noti agli organi di informazione, le donne sono state condannate per aver ucciso i loro mariti o partner in seguito a violenze subite nel corso di diversi anni. Mai che venga riconosciuta la legittima difesa. Ma sono numeri incompleti, considerando tutte le esecuzioni che avvengono in segreto, fuori dai riflettori dei media. All'interno del matrimonio in Iran una donna non ha il diritto al divorzio, anche nei casi più gravi di percosse e di sevizie sessuali.