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Ci sono diverse ragioni per cui Israele sta ritardando l’annunciata offensiva di terra nella Striscia di Gaza con la missione di «annientare Hamas». In primo luogo le pressioni degli alleati, su tutti gli Stati Uniti di Joe Biden ( e lateralmente l’Unione europea) che da almeno due settimane frenano gli scomposti piani di vendetta del governo Netanyahu per evitare una carneficina di civili palestinesi, e allo stesso tempo che il conflitto si estenda a macchia d’olio nella regione coinvolgendo i miliziani di Hezbollah i loro padrini iraniani e magari rianimando i tanti gruppi jihadisti dormienti. Washington ha donato 14 miliardi di dollari per la sicurezza dello Stato ebraico e di conseguenza detta a suo modo la linea, non invita ma impone a Tel Aviv cautela e moderazione.
C’è poi la questione, delicatissima, degli ostaggi, oltre 220, ancora nelle mani di Hamas. I margini di trattativa sono esigui ma la liberazione nelle scorse ore di quattro prigionieri (due donne americane e due donne israeliane) tramite la mediazione del Qtar dimostra che attraverso i canali giusti, si possono ancora salvare vite umane. La pressione fortissima dei familiari sulle autorità per riportare i loro cari a casa sani e salvi a non considerarli mai e poi mai “sacrificabili” è un altro evidente freno alla volontà di scatenare l’inferno a Gaza.
Nonostante il clima di unità nazionale causato dall’ondata di choc per i pogrom del 7 ottobre la popolarità dell’esecutivo è precipitata ai minimi storici (appena il 20% degli israeliani si fida di “Bibi” e dei suoi ministri ritenuti inetti e pericolosi) e un bagno di sangue tra gli ostaggi sarebbe umanamente e politicamente insostenibile..
Però esiste un terzo elemento, intrinseco, legato cioè alla natura stessa dell’operazione militare che preoccupa non poco i generali di Tshaal: lo scenario della guerra asimmetrica, un incubo per qualsiasi esercito regolare.
La storia recente è in tal senso maestra di vita: dalla giungla del Vietnam ai vicoli di Algeri, dalle montagne dell’Afghanistan al deserto iracheno le grandi potenze militari hanno sempre sbattuto il muso contro quel letale intreccio di terrorismo e guerriglia in cui un nemico mimetico e invisibile può logorarti per anni interi, riapparendo improvvisamente dalla proprie cenerei quando lo credevi sconfitto, vanificando ogni strategia. Il fitto labirinto di Gaza è solo l’ultima variante di quello scenario, la sceneggiatura di un film che sembra già scritto. Mai prima d’ora l’esercito israeliano è entrato massicciamente a Gaza
con carri armati, blindati e unità di fanteria, o almeno lo ha fatto in settori di confine limitati e per un tempo limitato. Da “Piombo fuso” a “Margine di protezione”, il fulcro di tutte le sue offensive contro Hamas sono sempre stati i bombardamenti aerei per minimizzare le perdite tra i soldati, come del resto è accaduto in questi primi giorni di guerra, con costi altissimi tra la popolazione palestinese (oltre 5mila le vittime civili). Ma stavolta lo scopo non è una manciata di omicidi mirati per quanto eccellenti o la distruzione di qualche tunnel o deposito d’armi, ma l’annientamento o comunque il disarmo completo del movimento islamista, Per ottenerlo l’operazione di terra è inevitabile ma non offre nessuna garanzia di vittoria finale. Anzi, ci sono buone probabilità perché sia foriera di nuovi conflitti e instabilità. La mancanza di visione politica e l’improvvisazione dimostrata dal governo alimentano ancor più questo timore.
Combattendo tra macerie dei palazzi distrutti, edificio per edificio, in aree ancora popolate da tanti civili, esponendosi a mille insidie, dalle mine antiuomo, ai cecchini, dagli assalti mordi e fuggi dei miliziani appostati nei tunnel, agli attentati esplosivi, lo stato maggiore di Israele è cosciente che in questa offensiva ci saranno migliaia di morti anche tra i militari dello stato ebraico come mai accaduto in passato. Penetrare dentro la Striscia con interi reggimenti sarà complicato e laborioso; ad esempio mettere in sicurezza il terreno pieno zeppo di mine con l’aiuto dei robot è una procedura lentissima in cui si avanza per non più di venti metri ogni ora.
Per aiutare Tshaal a pianificare le fasi dell’attacco, gli Usa hanno spedito a Tel Aviv un veterano dell’Iraq, il generale James Glynn che nel 2004 guidò i marines nella battaglia di Falluja. Ufficialmente una consulenza tecnica da chi già ha combattuto in ambienti urbani contro milizie di guerriglieri, ma come scriveva ieri Associated Press citando fonti del Pentagono «l’aiuto di Glynn servirà anche a mitigare il numero di vittime civili»