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Centotrenta anni fa i social non esistevano ma nel cuore dell’Europa il pregiudizio antisemita correva ugualmente come un telefono senza fili, accomunando in un’identica ossessione il popolo e le élite, il nazionalismo reazionario e la stampa sensazionalista.
Albert Dreyfus fu la vittima esemplare di quel clima infetto e strisciante; ebreo alsaziano, ufficiale di artiglieria dell’esercito francese, nel 1894 fu accusato di spionaggio a favore dei tedeschi e condannato per alto tradimento. Il processo – interamente costruito su prove false, preconcetti razziali e trainato dal furore giustizialista dei grandi giornali dell’epoca– si conclude con la sentenza di ergastolo e la deportazione sulla terribile isola del Diavolo, nella Guyana francese, un luogo da dove (quasi) nessuno ha mai fatto ritorno.
Solo dodici anni dopo, grazie al coraggio di intellettuali controcorrente come lo scrittore Emile Zola autore del celebre pamphlet J’accuse, Dreyfus viene riabilitato ma per tutta la carriera rimane un anonimo ufficiale, dimenticato dall’esercito ma soprattutto dalla nazione che per oltre un secolo ha rimosso fino ad ora quella vergognosa pagina.
Così oggi l’Assemblea nazionale francese ha votato all’unanimità una proposta di legge che promuove Dreyfus al grado di generale di brigata. Un atto simbolico e riparatore che chiude, almeno sul piano istituzionale, una delle ferite più profonde e durature della storia repubblicana.
L’idea prende forma da una tribuna pubblicata su Le Figaro lo scorso 17 aprile. Tra i firmatari: l’ex ministro socialista Pierre Moscovici, l’ex segretario generale dell’Eliseo Frédéric Salat-Baroux e Louis Gautier, presidente della Maison Zola-Musée Dreyfus. Il testo proponeva un semplice articolo: «La nazione francese, amante della giustizia e della memoria, eleva post mortem Alfred Dreyfus al grado di generale di brigata». Quella formula è stata ripresa parola per parola nella proposta di legge di Kanner, firmata da oltre cento senatori di ogni orientamento politico anche tra i membri del Ressamblement national di Marine Le Pen.
Pochi giorni dopo, l’ex premier macroniano Gabriel Attal capogruppo di Renaissance ha presentato un testo simile in Assemblea, con il sostegno dell’intero partito. Già qualche anno fa la questione era emersa per poi finire nel dimenticatoio. Nel 2021, durante una visita al museo Zola di Médan, il gran rabbino di Francia Haïm Korsia chiese direttamente a Emmanuel Macron di sanare questa ingiustizia simbolica. Il presidente ne riconobbe il valore, ma precisò che non spettava a lui prendere quella decisione ma al Parlamento.
Infatti come spesso accade, quando la verità è sconveniente le amnesie servono a coprire l’imbarazzo a giustificare l’inazione, quasi come un riflesso condizionato collettivo. Dopo la riabilitazione giuridica e il proscioglimento arriva la rimozione, la figura di Dreyfus rimane a lungo disturbante, marginale nei manuali di Storia, un’ombra silenziosa nelle caserme, un’onta mai realmente metabolizzata dal corpaccione nazionale.
Solamente nel 2006, esattamente un secolo dopo la sua assoluzione, il presidente neogollista Jacques Chirac riconosce che «giustizia non gli era stata completamente resa». D’altra parte era stato lo stesso Chirac, undici anni prima nel suo primo discorso del suo primo mandato all’Eliseo, a chiedere scusa in nome della Francia alle centinaia di miglia di ebrei deportati nei campi di sterminio tedeschi dal regime collaborazionista di Vichy. Un atto dovuto ma che nessun presidente della Quarta e della Quinta repubblica si è mai voluto intestare, neanche e soprattutto François Mitterrand che, quando aveva 25 anni, prestò servizio come funzionario nel Commissariato generale per i prigionieri di guerra di Vichy. Una macchia che il presidente socialista ha sempre evitato di affrontare in pubblico.
Il voto del Parlamento non è quindi un atto casuale. È l’ultima tappa di un lungo cammino, accelerato negli ultimi anni dal riemergere di pulsioni antisemite e dalla crescente attenzione alle responsabilità storiche della Francia che è stata sì la patria dei diritti umani ma anche una potente incubatrice dell’ideologia antisemita in Europa.
«Gli atti d’odio di oggi dimostrano che questa battaglia è ancora necessaria» ha detto Attal in Assemblea, legando la riabilitazione di Dreyfus al rifiorire di sentimenti anti ebraici nel Vecchio continente e in particolare in Francia dove la scorsa settimana il Memoriale della Shoah è stato vandalizzato da ignoti con della vernice verde. Nella tribuna del Figaro, senza nominarla, si criticava una parte della sinistra radicale accusata di alimentare un nuovo antisemitismo talvolta dissimulato sotto la critica allo Stato di Israele e alla doverosa solidarietà nei confronti del popolo palestinese, associando la riabilitazione di Dreyfus all’odierna battaglia contro la giudeofobia.
Un passaggio magari un po’ forzato anche se negli ultimi due anni oltre le Alpi si sono moltiplicati gli attacchi a individui, sinagoghe, cimiteri altri luoghi di culto della comunità ebraica, oltre il 300% dal 2023.
Ma il mondo politico francese vuole andare oltre la simbolica promozione postuma e omaggiare Dreyfus con tutti gli onori riservati alle grandi figure della Repubblica: il deputato centrista Sylvain Maillard ha infatti evocato la possibilità di traslare le spoglie di Dreyfus al Panthéon di Parigi. Un’idea tutt’altro che nuova, ma che non trova tutti d’accordo e rischia di generare nuove polemiche. François Bayrou, oggi primo ministro, si era dichiarato contrario già nel 2006: «Il Panthéon è per chi ha cambiato la storia, non per chi l’ha subita». Ma è proprio qui che si gioca il senso profondo della memoria: riconoscere che, talvolta, anche subire la storia con dignità può cambiarla per sempre.