In Israele la guerra di Gaza non divide soltanto due popoli, sta erodendo il tessuto stesso della società e facendo emergere una trasformazione profonda e violenta della scena politica, oggi dominata da forze apertamente suprematiste. All’ombra del trauma del 7 ottobre l’intero Paese si è riscoperto più chiuso, più intollerante, più incline a giustificare l’indicibile in nome della sicurezza mentre.

L’opposizione alla guerra e al governo Netanyahu esiste, ma non ha la forza di fermare la macchina di morte che da quasi due anni semina distruzione e caos nella Striscia. Oltre ai 60mila palestinesi uccisi (in buona parte civili non combattenti) raggiunti da bombe nelle loro abitazioni o freddati mentre sono coda per gli aiuti, il Programma alimentare mondiale (Pam) conferma che a Gaza è in corso una terribile carestia che colpisce più dell’80% dei due milioni di abitanti, una catastrofe umanitaria di proporzioni enormi che nessuna propaganda bellica è in grado di oscurare e che molti media dello Stato ebraico riportano quotidianamente.

Una parte consistente dell’opinione pubblica manifesta dall’ottobre del 2023 per il ritorno a casa degli ostaggi, contestando al governo di aver abbandonato un principio un tempo sacro per lo Stato ebraico: l’incolumità dei suoi cittadini prima di ogni cosa, una svolta traumatica. Sacrificare i prigionieri nel nome della guerra ai terroristi di Hamas e delle proprie ambizioni politiche è considerato inaccettabile da molti israeliani. L’aprile scorso circa 1000 tra riservisti e veterani dell’Aeronautica israeliana hanno pubblicato una lettera aperta sui principali quotidiani nazionali per denunciare l’abbandono degli ostaggi chiedendo la «fine immediata di un conflitto portato avanti solo per motivi personali»

Contestazioni legittime e in parte popolari, ma ancora “interne” perché non tengono conto della sofferenza dei gazawi o comunque la relegano sullo sfondo del ragionamento. Accanto a questo movimento più trasversale, un’altra opposizione, più debole e minoritaria, si muove per condannare i crimini commessi dall’Idf nella Striscia provando a rianimare la declinante prospettiva dei “due popoli, due Stati”. Gruppi come Breaking the Silence, Combatants for Peace e Standing Together — movimenti formati da ex soldati, pacifisti ebrei e arabi, attivisti per i diritti civili — hanno intensificato le loro iniziative pubbliche, denunciando non solo l’inutilità strategica della guerra, ma anche il carattere disumano e sproporzionato della risposta israeliana. Nelle manifestazioni, i cartelli con le foto degli ostaggi si affiancano a striscioni con scritto “Ceasefire now” e “Palestinian lives matter”.

Una parte dell’opinione pubblica, seppur ancora minoritaria, ha cominciato a parlare apertamente di “crimini di guerra”, di “punizione collettiva”, di “abuso del dolore nazionale per fini politici”. Ma nessun soggetto sembra capace di porre problemi al governo, molto più preoccupato di perdere pezzi alla propria destra che di ottenere il consenso dei moderati e dei pacifisti.

Secondo un sondaggio condotto dall’Israel Democracy Institute nello scorso giugno, meno del 17% degli israeliani si dice favorevole a un cessate il fuoco immediato senza condizioni. Il sostegno all’operazione militare resta solido tra la maggioranza e si è persino radicalizzato in alcuni settori, complici la paura di venire additati come “traditori della patria”; da un governo che ha fatto della sicurezza una religione. L’esecutivo guidato spalleggiato da ministri ultranazionalisti come Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, si regge su una narrazione totalizzante: chi è contro la guerra è contro Israele ed un complice di Hamas e di tutti i suoi nemici.

In questa cornice deprimente, le voci critiche si scontrano con un muro sempre più alto. L’ex generale Yair Golan, oggi alla guida di un nuovo movimento progressista, ha parlato pubblicamente di «pulizia etnica» e «degrado morale delle istituzioni», ricevendo insulti e minacce. L’ex premier Ehud Olmert ha definito il governo una «gang criminale», ma è stato liquidato dai media filogovernativi come un relitto del passato. Il parlamentare Ofer Cassif, ebreo antisionista, è stato sospeso più volte dal Knesset, accusato di diffondere propaganda nemica. E molti israeliani che criticano i massacri di Gaza lo fanno in forma anonima, o in contesti chiusi, temendo ritorsioni professionali, accuse di slealtà e l’isolamento.