Le elezioni anticipate del prossimo 28 giugno in Iran rappresentano un appuntamento particolarmente significativo: eleggeranno il presidente che, insieme all'attuale Parlamento, potrebbe essere chiamato a gestire l'epocale sfida della transizione ai vertici del Paese, con l'avvicinarsi della successione alla Guida Suprema, Ali Khamenei, 85 anni, la più alta e potente carica di un sistema fatto di diversi centri di potere.

Dopo la morte del presidente ultraconservatore Ebrahim Raisi in un incidente in elicottero il mese scorso, il voto anticipato di un anno si svolge sullo sfondo di un crescente malcontento interno, l'apatia degli elettori e le forti turbolenze regionali con la guerra tra Israele e Hamas. Il Consiglio dei Guardiani, l'organismo dominato dagli ultraconservatori che seleziona gli idonei alla corsa elettorale, ha dato il via libera solo a 6 candidati sugli 80 registratisi; la maggior parte sono conservatori con forti posizioni anti-occidentali, mentre il campo riformista è rappresentato da un solo candidato, il parlamentare Masoud Pezeshkian.

Metà degli aspiranti presidenti sono sanzionati dai governi occidentali. Le donne che si erano registrate sono state tutte squalificate, come anche importanti moderati e riformisti, tra cui l'ex presidente del Parlamento Ali Larijani e l'ex primo vicepresidente Eshaq Jahangiri. Si ritiene che il favorito alle urne sia Mohammad Bagher Qalibaf, 62 anni, ex sindaco di Teheran con stretti legami con il Corpo dei Guardiani della Rivoluzione e in grado di intercettare anche il voto centrista. L'altro candidato del campo conservatore su cui sono puntati i riflettori è l'ex capo negoziatore per il nucleare, l'ultraconservatore Said Jalili.

Le elezioni si svolgono sullo sfondo di una ormai perenne crisi economica, di un diffuso malcontento popolare e di una feroce repressione del dissenso con almeno nove giovani giustiziati per aver preso parte alle proteste del movimento Donna, vita, libertà nel 2022. Gli elettori, ormai da anni, manifestano la loro disillusione nei confronti di un sistema ritenuto sempre meno inclusivo, truccato e incapace di migliorare le loro vite, disertando le urne. Nelle ultime presidenziali del 2021, l'affluenza ha registrato il record negativo del 48,8%, il dato più basso dalla Rivoluzione islamica del 1979. In un sistema altamente controllato come quello iraniano, l'affluenza è un fattore importante di legittimazione del potere. La Guida Suprema dell'Iran, l'ayatollah Ali Khamenei, ha sollecitato una forte partecipazione al voto, mentre figure come la Nobel per la pace 2023, l'attivista in carcere Narges Mohammadi, hanno lanciato appelli al boicottaggio parlando di "elezioni illegali".

“Se si riuscirà a convincere gli elettori ad andare alle urne, invertendo la tendenza all'astensionismo, allora il prossimo presidente della Repubblica islamica potrebbe anche essere un riformista, mentre un'affluenza scarsa porterà alla vittoria di un ultraconservatore”, è l'analisi condivisa con Agi da Nicola Pedde, direttore dell'Institute for Global Studies. “Le possibilità che si vada quantomeno a un ballottaggio tra il candidato riformista e un conservatore è concreta", sostiene Pedde. “Se l'affluenza sarà mediamente elevata”, ipotizza l'analista, “la sfida potrebbe essere tra Pezeshkian e l'ex sindaco di Teheran, Mohammad Qalibaf, che può intercettare anche il voto di aree centriste”. Una scarsa affluenza, invece, “avvantaggerà gli ultraconservatori e in particolare Said Jalili, esponente della fazione dei Paydari (gli ultraconservatori), che non è maggioritaria all'interno della componente del voto conservatore, ma ha una base molto coesa e compatta”. Lo si è visto nelle elezioni parlamentari di marzo, “dove la scarsa affluenza ha penalizzato tanto l'aerea riformista e centrista quanto quella principalista (i conservatori che fanno riferimento ai principi della Rivoluzione islamica) e i Paydari si sono affermati come area maggioritaria", ricorda Pedde. Lo scenario di una presidenza Jalili, però, non sarebbe il favorito di Khamenei: “Porterebbe a una rivisitazione ancora più radicale dell'esperienza di Mahmoud Ahmadinejad che con la Guida Suprema entrò in aperto conflitto durante il suo secondo mandato”.