In ogni angolo di Tel Aviv, in ogni liceo o facoltà universitaria; in ogni ospedale, ufficio pubblico o compagnia privata, è appeso e ben visibile, il manifesto coi volti dei rapiti del 7 ottobre, il giorno del pogrom. Dietro ogni volto c'è una storia, dietro ogni singola storia c’è la solenne promessa di familiari, militari, politici: “Fino a che uno solo di voi sarà ancora prigioniero, noi saremo qui a lottare”.

È da quel manifesto e da quel giuramento che si deve partire per provare a capire - senza per questo giustificare - quel che Israele sta facendo in queste settimane. Solo quelle storie, trasmesse h24 dalle tv israeliane, possono aiutare a comprendere la reazione furiosa di un popolo intero che però è sempre più solo, abbandonato dalle diplomazie europee e criticato dai suoi stessi alleati. Dal presidente americano Joe Biden, tanto per cominciare, che ieri l’altro ha detto quel che covava da tempo, e cioè che Israele si sta isolando sempre di più e che ' Netanyahu - ha dichiarato testualmente - è alla guida del governo più conservatore della storia israeliana”. Biden ha poi messo il dito sulla piaga accusando “l’amico Bibi” di non avere un obiettivo chiaro, di non volere nulla, ' neanche la soluzione dei due Stati”. Infine la sentenza finale: “Israele sta perdendo il sostegno internazionale a causa dei bombardamenti

indiscriminati”.

Già, proprio così, Israele è sola. Ogni giorno che passa diventano sempre più insopportabili le migliaia di morti civili colpiti dall’Idf per scovare gli uomini di Hamas. Così come diventa sempre più intollerabile la sistematica violazione del diritto internazionale. Ma per chi, come chi scrive, ha avuto modo di visitare quei luoghi e andare in pellegrinaggio guidato nei kibbutz della strage e parlare con chi ha visto morire in quel modo e sotto i propri occhi figli, compagni, amici; ecco, chi ha potuto vedere tutto questo sa bene che Israele difficilmente cambierà strategia. E non lo farà per due ragioni.

La prima: Netanyahu sa che la sua sopravvivenza politica è legata a filo doppio a questa guerra. E sa che il giorno dopo il cessate il fuoco - come ha rivelato un osservatore assai attento e legato ai servizi israeliani - gli verrà tolto il passaporto e portato alla sbarra. E’ la disperazione che guida Netanyahu, nient’altro che la disperazione. Per questo è un uomo pericoloso. Ma c’è qualcosa di più profondo che muove dentro la società israeliana. Il cinismo politico di Netanyahu non basta a spiegare la furia di questa guerra. La verità, infatti, è che tutto il popolo di Israele, anche quella larga fetta di opinione pubblica ferocemente critica con il premier, è mobilitata, schierata, “ingaggiata” in battaglia.

E c’è un dato terrificante che spiega più di mille parole quel che sta avvenendo: negli ultimi due mesi sono stati concesse ai civili più di 250mila armi, che vanno aggiunte agli oltre 400mila fucili e pistole dei riservisti che sono tornati da ogni parte del mondo per indossare la divisa e “proteggere Israele”. Già proteggere Israele, è questo quello che dicono perché hanno la profonda convinzione e consapevolezza di essere di nuovo nel mirino di chi vuole sterminarli per il semplice fatto di essere ebrei.

Insomma, per ora l'odiato Netanyahu, l’uomo che ha permesso il pogrom del 7 ottobre, e il popolo di Israele hanno una missione comune: distruggere Hamas e liberare gli ostaggi. Costi quel che costi. Ma è questo il problema, l’enorme costo in vite umane di questo piano. E ai veri amici di Israele non resta che aiutarla a uscire dal tunnel in cui si è ficcato, forse più buio e pericoloso degli stessi tunnel di Hamas. Ma non sarà facile.