E così Mahmmud Abbas si dice disponibile a prendere in mano il controllo della Striscia di Gaza sotto il patrocinio diplomatico degli Stati Uniti e dei paesi arabi moderati.

Dopo gli imbarazzanti silenzi nelle settimane successive al 7 ottobre e all’assedio della Striscia, il vecchio leader dell’Autorità nazionale palestinese approfitta della crisi e dell’incontro con il Segretario di Stato Usa Anthony Blinken per ridare centralità alla sua derelitta Anp, finita da tempo nell’angolo, svuotata di efficacia politica e in grave crisi di popolarità. Dal suo eremo di Ramallah Abbas spera così in una resurrezione inattesa.

Sarebbe la soluzione “ideale” per l’Occidente, tant’è che da domenica sera capi di Stato e di governo e le stesse autorità dell’Unione europea salutano e applaudono l’ipotesi di un clamoroso ritorno dell’Anp a Gaza dopo oltre 15 anni. Il problema è che allo stato delle cose si tratta di una soluzione fantasy, che risponde più a delle aspettative della cosiddetta comunità internazionale e alle ambizioni di Abbas e del suo gruppo dirigente che alla realtà. E sovrapporre i desideri per quanto virtuosi ai fatti è un esercizio rischioso.

In primo luogo si danno per scontati gli esiti di una guerra che, secondo gli stessi generali israeliani, sarà «lunga e difficile» al punto che «annientare» Hamas sembra sempre più un’intemerata propagandistica del governo Netanyahu che un concreto e fattibile obiettivo.

Le truppe di Tel Aviv navigano a vista in uno scenario di guerriglia urbana storicamente sfavorevole agli eserciti regolari e devono adattarsi a combattere casa per casa in un’area piena di civili e di altrettante incognite.

Come scriveva ieri Haaretz citando fonti statunitensi, Washington è molto preoccupata della mancanza di una exit strategy e di un piano politico- militare da parte israeliana mentre a Gaza l’offensiva sta creando una catastrofe umanitaria di proporzioni gigantesche. L’accumulo quotidiano di caos e sofferenza allontana qualsiasi spiraglio di negoziato.

Ma l’ostacolo più difficile da sormontare per Abbas è la stessa Hamas, il suo radicamento nella società palestinese non solo nella Striscia ma anche nella “sua” Cisgiordania. Approfittare della guerra per insediarsi a Gaza sotto il mantello degli Stati Uniti e il tacito consenso di Israele sarebbe visto come l’ennesimo “tradimento” di Fatah (il partito di Abbas), un’operazione tutta politicista e tutta di potere. Per questo Abbas chiede garanzie perché si arrivi a una «soluzione globale» della questione palestinese rievocando il tema eterno di “due popoli, due Stati”, prospettiva auspicata da molti al punto da diventare uno slogan planetario. Il fatto è che detta così è una tautologia visto che il conflitto è avvitato su se stesso da decenni proprio perché i palestinesi non hanno uno Stato.

Inoltre va considerato il pericolo che esploda una nuova guerra fratricida tra Fatah e Hamas, due gruppi animati da reciproco odio politico e divisi da quasi 20 anni di sanguinosi scontri. Tutto nasce nel 2006, anno delle uniche elezioni legislative palestinesi vinte a sorpresa dal movimento islamista che grazie al sistema delle circoscrizioni uninominali conquista 75 seggi contro i 45 dei rivali. Il risultato, che ha solide motivazioni sociali legate alla corruzione endemica dell’Anp e allo degrado delle condizioni economiche, crea un terremoto politico e un’ondata di violenze con centinaia di morti e migliaia di feriti da entrambe le fazioni.

Quando il presidente Abbas dichiara nel 2007 lo stato d’emergenza e convoca nuove elezioni il primo ministro di Hamas Ismail Haniyeh non riconosce la sua autorità e inizia la fase più cruenta della guerra civile. I membri di Fatah vengono cacciati dalla Striscia con brutalità, molti di loro linciati o giustiziati dalle milizie islamiste. Sono le settimane terribili della caccia all’uomo e dei “collaborazionisti” di Fatah lanciati giù dalle finestre dei commissariati e mutilati da folle inferocite. O dell’attacco alla stessa simbologia politica dell’Olp come accadde nella strage del 12 novembre 2007 quando le brigate al Qassam ( l’ala militare di Hamas) spara su una manifestazione in memoria di Yasser Arafat uccidendo decine di militanti.

Meglio addestrati e probabilmente più motivati i guerriglieri di Hamas prendono il controllo totale del territorio della Striscia e Fatah è costretta ad abbandonare Gaza con la coda tra le gambe.

Nel corso degli anni ci sono stati diversi e infruttuosi tentativi di riconciliazione accompagnati puntualmente da nuovi scontri e nuovi martiri, spesso contestualmente alle operazioni israeliane, come accadde nel 2012 durante “Piombo fuso”. Con Fatah che è progressivamente scivolata nella zona d’ombra dell’irrilevanza, incapace di parlare ai giovani palestinesi e di far emergere una nuova generazione di dirigenti.

Con queste premesse sarà difficile per Abbas e i suoi dinosauri evitare un nuovo conflitto con Hamas che, tanto per intenderci, ha già accusato l’Anp di collusione con il nemico tramite lo storico leader Osama Hamdan: «Il nostro popolo non accetterà né di essere sotto tutela degli Stati Uniti né un nuovo governo Vichy».