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di Jürgen Habermas
La Ministra degli Esteri emozionalmente commossa è già diventata un'icona. Questa lettura si fonda sull’esempio di quei giovani, che sono stati educati alla sensibilità nelle questioni normative, che non nascondono le loro emozioni, reclamano a gran voce maggiore impegno destando la sensazione che la realtà assolutamente nuova della guerra li abbia brutalmente strappati alle loro illusioni pacifiste. Ciò ricorda anche la Ministra degli Esteri, già diventata un’icona, che immediatamente dopo lo scoppio della guerra, con gesti credibili e con una professata retorica confessionale ci ha regalato un’immagine di autenticità. Come se con ciò si ponesse anche a favore della compassione e dell’impulso ad aiutare, ampiamente diffusi nella nostra popolazione.
Al di là di ciò ella ha fornito un’immagine convincente alla spontanea identificazione con le sollecitazioni veementemente moraleggianti della leadership ucraina fermamente decisa a vincere. E qui si tocca il nucleo del conflitto tra chi assume in modo empatico e tuttavia repentino la prospettiva di una nazione che combatte per la propria libertà, i propri diritti e la propria vita, e chi ha tratto una diversa lezione dalle esperienze della guerra fredda e – come chi protesta nelle nostre strade – ha sviluppato una mentalità diversa. Mentre gli uni possono solo immaginare una guerra con l'alternativa vittoria/ sconfitta, gli altri sanno che le guerre contro una potenza nucleare non possono più essere ' vinte' nel senso convenzionale del termine. In parole povere, le mentalità più propriamente nazionali e post- nazionali delle popolazioni fanno da sfondo a diversi atteggiamenti nei confronti della guerra in generale.
Questa differenza diventa chiara quando si confronta l'ammirata resistenza eroica e l'evidente sacrificio della popolazione ucraina con ciò che ci si aspetterebbe dalle "nostre' (generalizzando) popolazioni dell'Europa occidentale in una situazione simile. La nostra ammirazione si mescola a un certo stupore per la certezza della vittoria e il coraggio indefesso dei soldati e delle annate reclutate per la battaglia, ciecamente determinati a difendere la loro patria contro un nemico militarmente di gran lunga superiore. D'altra parte, noi in Occidente ci affidiamo a eserciti professionali, che paghiamo per non doverci proteggere con le armi in mano ed essere protetti da soldati professionisti. Inoltre i negoziati devono ancora essere tenuti con lo stesso Vladimir Putin.
Questa mentalità post- eroica è stata in grado di svilupparsi in Europa occidentale - se posso dirlo in modo molto generalizzato - durante la seconda metà del ventesimo secolo sotto l'ombrello nucleare degli Stati Uniti. In considerazione della possibile devastazione di una guerra nucleare, nelle élite politiche e nella stragrande maggioranza della popolazione si fece strada l’idea che i conflitti internazionali potessero fondamentalmente essere risolti solo attraverso la diplomazia e le sanzioni - e che in caso di scoppio di conflitti militari, la guerra, che considerato il rischio difficilmente calcolabile di un uso imminente di armi NBC, a giudizio d’uomo non può più essere portata a termine in senso classico con una vittoria o una sconfitta, dovesse essere risolta il più rapidamente possibile: "Dalla guerra si può solo imparare a fare la pace", dice Alexander Kluge.
Questo orientamento non significa peraltro un pacifismo fondamentale, cioè la pace ad ogni costo. La tendenza a porre fine il più rapidamente possibile a distruzione, sacrificio umano e decivilizzazione non è sinonimo della richiesta di sacrificare un'esistenza politicamente libera a favore della mera sopravvivenza. Lo scetticismo nei confronti dei mezzi della violenza militare trova prima facie un limite nel prezzo che una vita soffocata in modo autoritario richiede – un'esistenza da cui risulterebbe scomparsa la consapevolezza della contraddizione tra normalità forzata e vita autodeterminata.
Il ritorno dei nostri ex- pacifisti, accolto con soddisfazione dagli interpreti della svolta epocale orientati a destra, si spiega con una confusione di queste due mentalità che si scontrano simultaneamente ma che storicamente non sono contemporanee. Questo marcato gruppo condivide la fiducia degli ucraini nella vittoria e fa appello con grande naturalezza al diritto internazionale violato. Dopo Butscha, lo slogan "Putin all'Aia" si è diffuso in pochissimo tempo! Ciò segnala generalmente la natura evidente degli standard normativi che applichiamo oggi alle relazioni internazionali, vale a dire l'effettiva portata del cambiamento nelle corrispondenti aspettative e sensibilità umanitarie della popolazione.
Alla mia età, non nascondo una certa sorpresa: quanto profondamente deve essere stato arato il terreno di autoevidenza culturale su cui vivono oggi i nostri figli e i nostri nipoti, se anche la stampa conservatrice chiama i procuratori di una Corte penale internazionale che non è riconosciuta né da Russia e Cina né dagli Stati Uniti. Sfortunatamente, in tali realtà anche il terreno ancora vuoto di un'identificazione eccitata viene tradito con le accuse morali sempre più stridule della moderazione tedesca. Come se il criminale di guerra Putin meritasse di apparire davanti a un tale tribunale, mentre egli ha ancora potere di veto nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e può minacciare i suoi oppositori con armi nucleari.
La fine della guerra, o almeno un cessate il fuoco, devono ancora essere negoziati con lui. Non vedo alcuna giustificazione convincente per la richiesta di una politica che - nella visione tormentosa e sempre più intollerabile delle vittime tormentate quotidianamente - metta di fatto a repentaglio l’altrettanto fondata decisione di non partecipare a questa guerra. La conversione degli ex pacifisti porta a errori e incomprensioni/equivoci. Le differenze politico-mentali, che si spiegano da sviluppi storici non simultanei, non devono essere attribuite agli alleati; essi dovrebbero prenderne atto come fatti e tenerne saggiamente conto nella loro cooperazione.
Ma finché queste prospettive rimangono sullo sfondo, esse causano solo una confusione di sentimenti, come nel caso della reazione dei deputati ai richiami all’ordine morali del presidente ucraino nel suo discorso online al Bundestag, una confusione tra le reazioni ungheresi di approvazione, la semplice comprensione della prospettiva dell'altro e il necessario rispetto di sé. La negligenza delle differenze storicamente giustificate nella percezione e nell'interpretazione delle guerre porta non solo, come nel caso del brusco scaricamento del presidente federale tedesco, a errori epocali nei rapporti reciproci ma, cosa ancora più grave, a reciproci fraintendimenti circa ciò che l’altro realmente pensa e vuole. Questa consapevolezza pone anche la conversione degli ex- pacifisti in una luce più sobria, in quanto sia l'indignazione che l'orrore e la compassione che formano lo sfondo motivazionale delle loro richieste in cortocircuito non sono spiegate da un rifiuto degli orientamenti normativi che i cosiddetti realisti hanno sempre deriso, ma da una lettura troppo concisa di questi stessi principi.
Non si sono convertiti ai realisti, ma si sono quasi trasformati in realismo: certamente vale il concetto che senza sentimenti morali, mancano i giudizi morali, ma da parte sua il giudizio generalizzante corregge anche la gamma limitata di sentimenti stimolati dalla vicinanza.
Del resto, non è un caso che gli autori del "Turning Point" siano quei liberali e quegli esponenti della sinistra che, di fronte a una costellazione drasticamente mutata delle grandi potenze – e all'ombra delle incertezze transatlantiche – vogliono fare sul serio con una visione scaduta: un'Unione europea che non vuole destabilizzare il proprio stile di vita sociale e politico dall'esterno o lasciarsi minare dall'interno potrà agire politicamente solo se saprà reggersi militarmente da sola. La rielezione di Macron segna un’ultima dilazione.
Ma prima dobbiamo trovare una via d’uscita costruttiva dal nostro dilemma. Questa speranza si riflette nella formulazione cauta dell'obiettivo che l'Ucraina non deve perdere la guerra. (Traduzione di Monica Caldaro)