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«Un omicidio di inaudita gravità». Si racchiudono in queste parole le motivazioni dell'ergastolo inflitto a Massimo Bossetti per l'omicidio di Yara Gambirasio, la ragazzina di 13 anni scomparsa a Brembate di Sopra il 26 novembre del 2010 e il cui corpo fu ritrovato a Chignolo d'Isola tre mesi dopo. Un delitto che secondo la Corte presieduta da Alessandra Bertoja sarebbe maturato in un «contesto di avances a sfondo sessuale, verosimilmente respinte dalla ragazza, in grado di scatenare nell'imputato una reazione di violenza e sadismo di cui non aveva mai dato prova fino ad allora». L'ergastolo, si legge nelle 158 pagine depositate ieri, trova motivazione nell'aggravante «dell'aver adoperato sevizio e agito con crudeltà». Bossetti avrebbe infierito a lungo sul corpo della piccola, «girandolo, alzando i vestiti e tracciando, mentre Yara era ancora in vita, tagli lineari e in parte simmetrici, in alcuni casi superficiali, in altri casi in distretti non vitali e, dunque, idonea a causare sanguinamento e dolore ma non l'immediato decesso», lasciando la vittima ad «agonizzare» nel luogo dove poi è stata trovata. Atteggiamenti che, per la Corte, svelano «un animo selvaggio», al punto da poter parlare di «crudeltà», data dall'appagamento «dell'istinto di arrecare dolore», nonché «di assenza di sentimenti di compassione e pietà». Punto fermo nella decisione dei giudici di condannarlo all'ergastolo, l'affidabilità del dna. Il profilo genetico nucleare di Ignoto 1, secondo le motivazioni, sarebbe senza ombra di dubbio di Bossetti, in quanto «verificato mediante una pluralità di analisi». Un dato «privo di qualsiasi ambiguità e insuscettibile di lettura alternativa», che non è smentito «né posto in dubbio da acquisizioni probatorie di segno opposto e anzi è indirettamente confermato da elementi ulteriori, di valore meramente indiziante, compatibili con tale dato e tra loro». I tabulati telefonici confermerebbero inoltre che la sera del fatto Bossetti non era altrove e, anzi, quel 26 novembre rientrò più tardi del solito a casa. «La sua attività professionale spiega l'inusuale - si legge ancora - concentrazione sul cadavere di particelle di calce e di sferette di metallo», residui che tipicamente si ritrovano sugli indumenti dei lavoratori del settore siderurgico e del settore edilizio. Rimane oscura la dinamica del fatto, ma la presenza del dna sugli slip e i pantaloni di Yara, affermano i giudici, è un dato che non può essere scalfito. Quelle tracce genetiche, infatti, provano «non solo che l'imputato e la vittima sono entrati in contatto ma che lui è l'autore dell'omicidio», indipendentemente da come siano andati i fatti. L'accusa, probabilmente, appellerà l'assoluzione per la presunta calunnia nei confronti di un ex collega di Bossetti, che sarebbe valso all'imputato l'isolamento diurno per sei mesi.