Intorno alle 6.30 del 4 novembre del 1979 alcune centinaia di studenti islamici attaccarono l’ambasciata degli Stati Uniti a Teheran. I militari addetti al servizio di sorveglianza cercarono di bloccare i dimostranti ma dopo circa tre ore furono travolti. Un assalto all’ambasciata c’era già stato nel febbraio di quell’anno, ma era finita in poche ore. Questa volta le cose erano diverse. Di lì a poco furono mostrati alle televisioni gli ostaggi, bendati, e avanzate alcune richieste di riscatto. Comincia così quella che è ricordata ormai come “la crisi degli ostaggi”.Da poco era rientrato in Iran l’ayatollah Khomeini, suscitando entusiasmo popolare e la definitiva crisi del regime, ma si temeva che gli americani – il Grande Satana, nelle parole dell’ayatollah – stessero tramando per impedire l’avvento dei mullah. È per questo che venne organizzato l’assalto all’ambasciata. Jimmy Carter – che era allora il presidente americano – si rifiutò di cedere al ricatto e così il Congresso. Si cercarono varie soluzioni diplomatiche ma l’opinione pubblica americana era sotto choc – voleva reazioni forti.Mentre continua il sequestro degli ostaggi, il 1980 è l’anno delle nuove elezioni presidenziali: in campo, per i repubblicani, c’è Ronald Reagan. Reagan tampina Carter e lo accusa di incertezza e indecisione, di essere “troppo cauto e prudente” e, in definitiva, di indebolire l’immagine americana nel mondo. Si fa interprete di una risposta aggressiva. È a questo punto che Carter – visto il fallimento di diversi tentativi diplomatici – decide l’azione militare. Un disastro. Gli elicotteri che dovevano compiere l’incursione non riuscirono a ritrovarsi e l’operazione fu annullata e, nel rientrare, uno d’essi andò a collidere con un aereo da trasporto provocando la morte di otto soldati. Per Carter fu la fine. Perse venti punti di popolarità in un momento. Reagan divenne il prossimo presidente in quel momento.Fu Carter a gestire gli ultimi passaggi della crisi, quando aveva già perso le elezioni. Mentre Reagan giurava da presidente, la mattina del 20 gennaio del 1981, gli ostaggi furono liberati. Erano passati 444 giorni dall’assalto all’ambasciata. Il migliore sponsor della campagna presidenziale di Reagan era stato proprio l’ayatollah Khomeini: aveva bisogno di un “grande nemico” per tenere compatto il suo popolo.C’è non poco nella campagna di Trump che ricorda l’aggressività di Reagan – sebbene più volte i commentatori americani abbiano respinto questo accostamento considerandolo come improprio. Però, nel chiedersi se dopo la strage di Orlando sia stato Trump a guadagnare in termini elettorali, l’accostamento alla “crisi degli ostaggi” viene spontaneo. Certo, mancano ancora cinque mesi alle elezioni, e il Gran Califfo dell’Orrore al Baghdadi non è l’ayatollah Khomeini, e la lotta al terrorismo islamico non si concentra in un solo evento dove tutto precipita, però Trump da mesi sta addosso al presidente Obama – mira al bersaglio grosso, The Donald, perché considera Hillary come una riproposizione della politica obamiana, e ieri la candidata democratica è sembrata prudente –, accusandolo di essere “troppo cauto”, di non aver voluto mai pronunciare le parole “terrorismo islamico radicale”, in definitiva di indebolire l’America. Ieri è tornato alla carica, subito dopo la strage di Orlando, chiedendone addirittura le dimissioni – Obama aveva parlato di “terrore e odio” – se non avesse pronunciato quelle parole. Trump da mesi martella l’opinione pubblica dicendo che centinaia di attentati dall’11 settembre sono stati programmati, realizzati o sventati, da musulmani migrati negli Stati uniti, o che qui erano nati. Trump ha nel suo programma la messa al bando di ingressi negli Stati uniti di nuovi musulmani. E continua a indicare la strage di San Bernardino – che ha molte caratteristiche comuni con l’attacco e l’attentatore di ieri – come “esemplare” di inaffidabilità e pericolosità di qualsiasi musulmano in territorio americano.Se la “guerra al terrorismo” dichiarata da George W. Bush, con la doppia invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq, si era rivelata costosa, in termini di vite umane e ingenti investimenti, ma poco consistente nei risultati, la politica del presidente Obama è stata improntata a uno sguardo completamente diverso. Ritiro delle truppe, utilizzo dei droni, iniziativa diplomatica nella regione mediorientale, operazioni mirate – come quella di Abbottabad contro Osama bin Laden – e anche, all’interno, un allentamento delle norme del Patriot Act, che avevano dato troppi poteri alle agenzie investigative di scrutare e osservare minuziosamente la vita privata in qualunque luogo e momento di ogni cittadino sul suolo americano. Trump sembra concentrarsi solo sul “dentro” anche se quel suo motto, “America First”, America anzitutto, può essere interpretato come una rinnovata aggressività nel mondo.Nessuno, in questo momento, è in grado di immaginare che cosa può significare, in termini di libertà e diritti, questa insistenza di Trump contro i musulmani, e che svolgimento può avere mettere l’interesse americano al primo posto; un esempio: dopo la strage di San Bernardino e le polemiche per la reiterata negazione della Apple a rivelare i codici di accesso ai cellulari di uno degli attentatori, in nome della privacy e dell’interesse aziendale, cosa avrebbe fatto Trump in quel caso? Vorrà costruire dei campi di internamento, sul modello – la storia non dovrebbe ripetersi, certo, però succede – di quelli contro i nippo-americani dopo Pearl Harbour?Una cosa sembra certa. La rivendicazione da parte dell’Is della strage di Orlando non sta in piedi in nessun modo – non è stata organizzata da loro come quella del Bataclan, per dire – benché lo stesso attentatore abbia urlato frasi sconnesse inneggiando a al Baghdadi. Però, si può presumere che il miglior sponsor della campagna presidenziale di Trump sarà proprio il Gran Califfo dell’Orrore. Anche lui ha bisogno di un “grande nemico” per tenere assieme i suoi tagliagola.