Non sappiamo se quello che è accaduto nelle stanze e nei computer dell’antimafia sia un “sistema”, né è chiaro se sia corretto oppure no parlare di dossieraggi. È tutto ancora molto confuso ed è bene aspettare che la nebbia si diradi.

Quel che però è certo, per quel che riguarda la nostra professione, è che l’invocazione della sacralità della libertà di stampa appare un po’ vuota, un tentativo di buttare la palla in tribuna per evitare di rispondere alla domanda che aleggia non da ora, ma da anni, da quando i cronisti si sono consegnati mani e piedi alle procure, alle forze di polizia più o meno “fedeli”, a settori dei Servizi segreti.

La domanda da farsi, si diceva, è la seguente: cosa è diventato il giornalismo? Certo, la questione è assai oziosa e un tantino autoreferenziale eppure è inevitabile visto che la qualità del giornalismo è il termometro che misura la tenuta della nostra democrazia.
E sì perché una cosa deve essere chiara: la relazione strettissima, diremmo intima, che esiste tra media, procure e forze di polizia che maneggiano informative e affini non è mai gratuita: c’è (quasi) sempre un do ut des che porta a un’inevitabile autocensura, alla decisione di rinunciare alla funzione di controllo sul potere giudiziario: fonte primaria di gran parte dei giornalisti. È libertà di stampa anche questa? Ne dubitiamo.
Per quel che riguarda la vicenda della banca dati dell’antimafia non resta che aspettare e, nel frattempo, dare la giusta misura a quel che è accaduto. L’impressione, infatti, è che ci si trovi di fronte a una Wikileaks de noantri; basti pensare ai terreni dei frati francescani adocchiati, pare, dal magistrato indagato dal procuratore Cantone per farsi un’idea della qualità dell’”affaire dossieraggi”.
Ciò non toglie che una riflessione sul nostro giornalismo è assolutamente indispensabile. Noiosa, certo, eppure vitale.