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Bruti Liberati
In un corso della Scuola Superiore della Magistratura Anna Maria Testa, grande esperta di comunicazione, in un breve efficacissimo intervento videoregistrato ci ammoniva: «In comunicazione non esiste “Tu non mi hai capito”, c’è solo: “Io non mi sono spiegato, mentre avrei avuto la responsabilità, da comunicante, di farmi capire”»..
Da almeno trent’anni, in saggi su riviste giuridiche, libri, interventi in convegni e contributi giornalisti affronto il tema “responsabilità penale/responsabilità politica”. Da ultimo ho svolto alcune considerazioni al riguardo su La Stampa del 27 luglio. In quest’ intervento evidentemente non mi sono spiegato, se su questo giornale l’ottimo Errico Novi il 29 luglio mi ha rivolto una garbata critica sotto il titolo “Caro dottor Bruti Liberati, perché affidare alla stampa il potere di rovinare la carriera dei politici?”. E allora chiedo ospitalità per cercare di raccogliere l’insegnamento della cara amica Anna Maria Testa. Provo a spiegarmi meglio. In sintesi tre punti.
1. Non intendo affidare alla stampa il potere di rovinare la carriera dei politici.
2. Non io, ma la tradizione liberaldemocratica affida alla stampa il ruolo di controllo sull’esercizio di chiunque eserciti un potere pubblico. La Corte Europea dei diritti dell’uomo ha qualificato la stampa come “cane da guardia della democrazia”. Il giudice Hugo Black nella sua «opinione concorrente” della sentenza della Corte Suprema USA New York Times Co. v. United States, 403 U.S. 713 (1971) scrive: «La stampa è al servizio dei governati e non dei governanti. […]Soltanto una stampa libera e senza limitazioni può svelare efficacemente l'inganno nel governo». Una presa di posizione forte, tanto più perché adottata nel pieno della guerra del Vietnam: si trattava della pubblicazione di documenti riservati “Pentagon papers”. Questo ruolo della stampa è così sentito negli Stati Uniti, da essere trasmesso al grande pubblico con i film. Alla vicenda dei “Pentagon papers” si ispira il film The Post del 2017, diretto da Steven Spielberg con protagonisti Meryl Streep e Tom Hanks. La battura finale di Humphrey Bogart nel film L'ultima minaccia (titolo originale Deadline, 1952) diretto da Richard Brooks «È la stampa, bellezza! La stampa! E tu non ci puoi far niente! Niente!» ha assunto un significato di principio, oltre l’occasione specifica in cui è pronunziata.
3. Nelle democrazie è la politica che si assume la responsabilità politica, il “potere” di valutare se dati di fatto pubblicati dalla stampa, da inchieste giornalistiche comportino la “rovina” di una carriera politica, prima, a prescindere e indipendentemente da un’indagine penale, che talora può addirittura non esserci, perché si tratta di fatti e comportamenti ritenuti disdicevoli, ma che non costituiscono reato.
Il presidente Nixon si dimette, anticipando una richiesta di impeachment, a seguito dell’inchiesta giornalistica sul caso Watergate. Karl-Theodor zu Guttenberg, già segretario generale del partito Csu, Ministro tedesco della difesa, nel 2011 si dimette da ogni incarico dopo che sulla stampa è stato segnalato il plagio di brani nella sua tesi di dottorato in diritto internazionale di qualche anno prima. Nei confronti di Christian Wulff, già presidente del partito Cdu, ora Presidente della Repubblica Federale Tedesca il 16 febbraio 2012 la procura di Hannover chiede la revoca dell'immunità prevista per il capo dello Stato in relazione ad una indagine per un finanziamento di 500.000 euro con un mutuo a tasso agevolato del 4%, che Wulff avrebbe ottenuto da un amico imprenditore, per la realizzazione di un appartamento in Bassa Sassonia, in cambio di favori. Il giorno dopo si dimette: il 27 febbraio 2014 è stato assolto dal Tribunale di Hannover dall'accusa di corruzione. Helmut Kohl, presidente onorario del partito Cdu, artefice della riunificazione tedesca, si dimette da ogni incarico quando nel 2000 emergono cospicui finanziamenti che aveva ricevuto in nero per la sua carriera politica. E’ noto quanto abbia giocato nella “rovina” politica di Boris Johnson la notizia diffusa dalla stampa della festicciola svolta a Downing Street in piena emergenza Covid: nessun rilievo penale per il Partygate, semmai alto tasso alcolico.
Occorre distinguere con grande cura tra criteri e regole della responsabilità penale e quelli della responsabilità politica. Il codice penale e quello di procedura penale raccolgono e precisano i principi di una tradizione di civiltà: In dubio pro reo. Con la modifica adottata nel 2006 l’art.533 al comma 1 prevede: “Il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputati risulta colpevole del reato contestato al di là di ogni ragionevole dubbio”. Ancora: l’inutilizzabilità processuale di elementi di prova decisivi per la condanna, ma illegittimamente acquisti, porta alla assoluzione. Di più, il principio del ne bis in idem preclude la possibilità di riprocessare l’imputato assolto, quando successivamente emergano anche prove clamorose della sua colpevolezza. All’opposto il principio della intangibilità del giudicato deve cedere alla possibilità di revisione ove emergano prove di innocenza. Criteri e principi sacrosanti, spesso difficili da far comprendere alla pubblica opinione, sui quali dobbiamo sempre vigilare. Ma operano solo nel ben delimitato campo di applicazione della norma penale.
Nessuno di questi criteri opera nel campo della responsabilità politica, ove, anzi, operano spesso criteri opposti. Se al di sopra di ogni sospetto deve essere la moglie di Cesare, a maggior ragione lo deve essere Cesare.
Occorre che la politica si riappropri del suo ruolo, faccia un passo avanti e valuti comportamenti attribuiti a suoi esponenti secondo il metro dell’etica pubblica, indipendentemente e a prescindere dai profili penali.
Sta alla politica decidere dove fissare l’asticella dell’etica pubblica: può attivare un giudizio di responsabilità politica anche per fatti che non abbiano rilevanza penale o all’opposto può non attivare questo giudizio di fronte a fatti penalmente rilevanti, ma ritenuti di non particolare gravità.
\Solo pochi anni addietro due governi tecnici hanno alzato e di non poco l’asticella del livello di etica pubblica: due ministre dimesse per casi di non particolare gravità. Nella vicenda che coinvolge una attuale ministra la confusione è totale. Laddove la politica, il governo, dovrebbe assumere la responsabilità “politica”, una valutazione autonoma sui fatti, il dibattito in Parlamento si è svolto come in una esercitazione degli studenti di un corso di procedura penale sul “certificato dei carichi pendenti”, sulla “informazione di garanzia” e infine sul “rinvio a giudizio”. Nel mio recente intervento non ho espresso opinione alcuna sul rilievo dei fatti “addebitati” dalla stampa ad una ministra. Ho invece preso atto della motivazione addotta dalla maggioranza: delegare sostanzialmente una scelta squisitamente politica, come lo è la nomina o la sfiducia per un ministro, ad una decisione della magistratura, il “rinvio a giudizio”, per di più in una fase iniziale della procedura giudiziaria. Apparentemente rispettosa della magistratura è una alterazione del rapporto politica giustizia.
La vecchia saggezza popolare ammoniva: non mischiate le mele con le pere. Non “mischiamo” responsabilità penale e responsabilità politica, il confine va rigorosamente delimitato.