PHOTO
Nel 1992 una terrificante miscela esplosiva, preparata (probabilmente) con materiale proveniente dagli Stati Uniti, squassò l’Italia. Gli effetti di quella “esplosione” furono politicamente devastanti: cancellazione del pentapartito ed eliminazione dei suoi leader, a cominciare da Bettino Craxi, non a caso identificato da Vittorio Feltri come “il Cinghialone”. Era lui, infatti, il bersaglio grosso. Il circo mediatico-giudiziario, allora in allestimento, ribattezzò “Mani pulite” l’operazione. I novelli Robespierre in toga, che ne furono protagonisti, attraverso l’avviso di garanzia ghigliottinarono i partiti che avevano governato l’Italia sin dal 1948. Un vero bagno di sangue. E non solo metaforico, come testimonia la lunga catena di suicidi che accompagnò il disinvolto ricorso alla carcerazione preventiva.
Chiaro l’obiettivo: spianare la strada a una sola parte politica, la sinistra impegnata in quel tempo in una delicata operazione di maquillage, impostale dal crollo del Muro di Berlino e dalla sorprendente implosione dell’impero sovietico. Ce la misera tutta. Ma non fu una rivoluzione: fu piuttosto un colpo di Stato. Se non riuscì fino in fondo fu solo per merito di uno straordinario imprenditore milanese che decise di scendere in campo: Silvio Berlusconi.
Iniziò allora la guerra, tuttora in corso, tra chi crede nel primato della politica e chi, invece, la pretende assoggettata agli interessi della magistratura militante. Le “toghe rosse” non persero tempo e sferrarono l’attacco subito dopo la vittoria del Cavaliere e dei suoi alleati, datata 27 marzo 1994. La loro prima bordata colpì la corazzata di Berlusconi nel golfo di Napoli, nel bel mezzo del G7. A lanciare il devastante siluro fu il “Corriere della Sera”: governo colpito e affondato. Ma l’“ammiraglio” Berlusconi non si arrese. E presto ripartì con una nuova flotta, alternando vittorie e sconfitte. E questo è ieri. Oggi che non c’è più, è giusto chiedersi se la sua trentennale guerra abbia impresso davvero una indelebile impronta garantista sul centrodestra.
E qui il discorso si complica, perché, a onor del vero, bisogna riconoscere che il movimento berlusconiano ha praticato il garantismo solo nei confronti del proprio capo. Questa, almeno, è l’impressione che ha dato. Intendiamoci: Berlusconi è stato sicuramente il politico più perseguitato d’Italia, ma ora è tempo di mettere gli eventi nella loro giusta luce. A partire dal riconoscimento del ruolo che ebbero due personalità come Pinuccio Tatarella e Marcello Dell’Utri, senza i quali, probabilmente, l’avventura politica di Berlusconi non sarebbe neppure decollata, per la gioia di Occhetto e compagni, gli unici che di conseguenza avrebbero brindato quel 27 marzo ’94.
Ma torniamo al garantismo.
Per anni Forza Italia se ne è riempita la bocca. Ma quanti errori. A cominciare dalle cosiddette leggi “ad personam”, spesso ispirate da Niccolò Ghedini, che oltre a non produrre effetti concreti e positivi, si trasformarono in clamorosi autogol. Il consigliere giuridico di Berlusconi, oltre che suo legale di fiducia, ha finito così per condizionare la politica del centrodestra in materia di giustizia. Gli effetti di questo garantismo intermittente hanno pesato moltissimo nelle scelte politiche di Forza Italia prima e del Popolo della Libertà poi. Nel 2013, ad esempio, pensando di ottenere qualche rallentamento nell’azione offensiva della magistratura nei confronti di Berlusconi, molti esponenti del Pdl furono offerti in sacrificio umano agli Dei togati. Soprattutto in Campania, la mia terra. Nicola Cosentino, allora potente coordinatore regionale, legato a Denis Verdini, in zona Cesarini non venne ricandidato, e fu costretto a consegnarsi nel carcere di Secondigliano.
E, dopo 10 anni, Cosentino si ritrova un’altra volta in carcere, adesso in quel di Rebibbia. Il vicario Mario Landolfi, già ministro delle Comunicazioni, venne cancellato dalle liste solo perché indagato in una vicenda di camorra dissoltasi, per altro, in primo grado e neanche impugnata dall’accusa. Analoga sorte subì Vincenzo Nespoli, senatore, tra i massimi esperti di sistemi e flussi elettorali. Per la Campania mi fermo qua. Ma potrei continuare a lungo. Da quel tempo nella mia regione il centrodestra non ha più vinto ed è nata la stagione dello sconfittismo.
Ma il colpo più clamoroso il garantismo intermittente lo riservò a Dell’Utri, proprio l’uomo che attraverso Pubblitalia e i “Circoli del buon governo” aveva messo in piedi la struttura organizzativa, l’impianto, l’architrave del movimento berlusconiano. Anche lui fu affidato al boia. Deliberatamente e cinicamente. Un vero colpo alla nuca. Ancora mi ronzano nelle orecchie le parole con cui, negli studi di “Porta a Porta”, Angelino Alfano ne liquidò la candidatura definendolo un “povero disgraziato” che era meglio tener fuori dal Parlamento. E da quel giorno anche per Dell’Utri comincio’ un drammatico calvario. Non dimenticherò mai i nostri incontri settimanali nella sua celletta di Rebibbia: due visite a settimana, due libri a incontro. Quei libri, mi ha ripeteva, “sono i miei veri farmaci, quelli che mi danno la forza per non morire”. Mai gli ho sentito pronunciare una parola fuori posto. Mai una imprecazione, a volte abbiamo anche sorriso, pur a fronte di tanta sofferenza. Un uomo vero. Di altri tempi. Si iscrisse anche alla facoltà di Storia, per prendersi un’altra laurea. Berlusconi, chiamato dai difensori di Dell’Utri, in qualità di testimone, in un suo processo delicato e complesso, non si presentò. Il suo difensore glielo aveva sconsigliato. Così, e sicuramente lo ricorda bene anche Renato Brunetta, allora mio capogruppo a Montecitorio, venni invitato, certo con garbo e cortesia, a smetterla con quelle continue visite a Rebibbia. Ghedini mi disse chiaramente che quelle mie frequentazioni avrebbero potuto nuocere al Capo del partito.
Ma io, come è ben noto, sono un irregolare, un politico atipico, che per tutta la vita è andato controcorrente. E soprattutto posso con orgoglio dire che non ho mai abbandonato gli amici. E fu così che fino allo scadere della diciasettesima legislatura continuai a far regolarmente visita a Dell’Utri. E quei nostri lunghi colloqui li ricorderò sempre. Anche quelli che facemmo presso il campus biomedico di Roma, dove per lungo tempo fu ricoverato per curare un gravissimo tumore. Certo, oggi non siedo più in Parlamento, altrimenti andrei a trovare a Rebibbia Cosentino. O sarei andato negli anni scorsi a far visita nel carcere di Nuoro all’amico Giancarlo Pittelli. Altra vittima, a mio giudizio, di un clamoroso errore giudiziario. Ma la coerenza, la libertà, la lotta contro le ingiustizie, il garantismo vero, non si vendono per un seggio parlamentare.
Non ho rimpianti, non ho rancori. Rifarei tutto quel che ho fatto. Pubblicherei cento volte ancora il libro sul golpe di Napolitano e Fini contro Berlusconi. Ma adesso, anche in onore alla guerra che ha dovuto affrontare Berlusconi, Forza Italia trovi il coraggio per sostenere a viso aperto e convintamente in tutte le sedi Carlo Nordio, l’unico ministro in grado di condurre in porto una vera riforma della giustizia in Italia. Giorgia Meloni ha scelto bene!
*Già deputato al Parlamento per il Popolo della libertà e componente della commissione Antimafia