A tutti quelli che ad ogni piè sospinto gridano all’oltraggio, al vilipendio della figura del Dottor Giovanni Falcone, solo perché qualche intellettuale, qualche giurista si permette di esprimere un pensiero garantista, non allineato al “sentire comune” dei professionisti dell’Antimafia, conviene ricordare che quel Magistrato non era come loro, e che si fa torto alla sua memoria, in egual misura, sminuendone l’opera ed intestandogli pensieri ed azioni che non gli appartenevano culturalmente.

«Ed è questo, in realtà, l'aspetto più singolare dell'attuale polemica: che si continuino ad invocare limitazioni dei diritti di libertà dei cittadini, in funzione di una loro pretesa appartenenza ad organizzazioni criminali e prescindendo da un positivo vaglio giudiziale della effettiva commissione di delitti di matrice mafiosa. A scanso di equivoci, non si intende riproporre, almeno in questa sede, la questione della costituzionalità delle misure di prevenzione, ma solo sottolineare la stranezza che in un Paese dove i "garantisti” abbondano nessuno si sia ancora accorto di quanto sia gravemente distonica, rispetto ai principi dello “Stato dei diritti”, oltre che inefficace, la pretesa di ricorrere massicciamente alle misure di prevenzione contro il crimine organizzato, trascurando il rigoroso accertamento delle responsabilità attraverso il processo penale».
La frase non è stata pronunciata da un avvocato, magari pelosamente garantista (secondo la comune vulgata dei professionisti dell’Antimafia), ma dal Dottor Giovanni Falcone (“La Stampa” del 17 giugno 1991), che non mancava di avvisare il lettore circa gli effetti potenzialmente criminogeni dell’applicazione indiscriminata delle misure di prevenzione.

Ed allora, a quelli che ad ogni piè sospinto gridano all’oltraggio, al vilipendio della figura del Dottor Giovanni Falcone, solo perché qualche intellettuale, qualche giurista si permette di esprimere un pensiero garantista, non allineato al “sentire comune” dei professionisti dell’Antimafia, conviene ricordare che quel Magistrato non era come loro, e che si fa torto alla sua memoria, in egual misura, sminuendone l’opera ed intestandogli pensieri ed azioni che non gli appartenevano culturalmente. Accade, oggi, che le artiglierie del pensiero allineato, in prima fila i suoi “calibri da novanta”, siano puntate contro Alessandro Barbano, la cui colpa è quella di aver richiamato l’attenzione della opinione pubblica sulle storture applicative della legislazione antimafia. Scrive l’autore, specie a proposito delle misure di prevenzione, che l’utilizzo di istituti significativamente deformalizzati e connotati da evidenti profili di distonia asistematica con i principi-cardine del “giusto processo accusatorio”, che consentano l’aggressione di ingenti patrimoni in assenza di prova circa la concreta derivazione illecita degli stessi, non è proprio di uno Stato che voglia dirsi “di diritto”, ossia fondato sulla protezione dei diritti individuali, specie se costituzionalmente garantiti, anche dalla pretesa punitiva pubblica.
E le regole processuali, in fondo, assolvono proprio alla funzione di calmierare l’intervento statale, perché non si debba più parlare di un Leviatano, «nel quale ogni uomo si unisce con ogni altro uomo alienando tutti i propri diritti, tranne quello alla vita, al sovrano».

È un pensiero corretto, quello di Barbano? Ma soprattutto, è un pensiero legittimo? Il primo quesito è argomento per gli addetti ai lavori. Il successo della pubblicazione dice che l’autore non ha evidentemente torto, anche perché la sua opera è basata sulla osservazione di eventi reali e disfunzionali, che poco o nulla hanno a che vedere con un corretto esercizio della giurisdizione.
Quello che Barbano denuncia, in controluce, è l’attrazione sempre più evidente dell’ordinario allo straordinario; la pretesa, condotta a colpi di leggi speciali (specie se “spazza qualcosa”) di utilizzare i “modi” e gli “strumenti” della legislazione antimafia per i “casi” più disparati; di fare della eccezione la regola, dello straordinario l’ordinario, mentre già qualcuno invoca persino l’istituzione - incostituzionale - di giurisdizioni speciali. L’inchiesta che diventa inquisizione.

Il secondo quesito riguarda tutti noi. Siamo ancora liberi di esprimere un’opinione, peraltro motivata, che vada contro il pensiero unico, senza che gli aedi di quel pensiero ci colpiscano con lo stigma del sospetto di “mafiosità”, con l’accusa di voler oltraggiare la memoria dei Magistrati morti nella lotta alla mafia e, in fondo, di volere una recrudescenza di quel fenomeno criminale? Additandoci al ludibrio di moltitudini obnubiliate dal desiderio di una giustizia più sommaria, più sbrigativa e più feroce possibile? L’Inquisizione, davvero, non ammette voci dissonanti: Deus vult! Non è questa la lezione - dimenticata - di tolleranza, confronto e dialogo che ci hanno lasciato le vittime (anche avvocati, tra loro) della lotta alla mafia. Restano epigoni tristi ed inadeguati, capaci solo di gridare alla lesa maestà, all’eresia.

Ma, per dirla con Umberto Eco, «spesso sono gli inquisitori a creare gli eretici. E non solo nel senso che se li figurano quando non ci sono, ma che reprimono con tanta veemenza la tabe eretica da spingere molti a farsene partecipi, in odio a loro». «Tutte le eresie sono bandiera di una realtà dell'esclusione. Ogni battaglia contro l'eresia vuole solamente questo: che l'emarginato rimanga tale».

* Avvocato del Foro di Catanzaro ** Avvocato del Foro di Torino