Sei mesi per fissare un appuntamento che non arriva mai; intermediari che si appostano fuori dalle ambasciate chiedendo migliaia di euro; famiglie separate per anni nonostante abbiano tutti i documenti in regola. È il quadro che emerge dall’inchiesta condotta dal progetto “Annick. Per il diritto all’unità familiare”, che nel 2024 e nei primi mesi di quest’anno ha assistito oltre 90 persone straniere alle prese con le procedure di ricongiungimento familiare. Un diritto fondamentale, riconosciuto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dalla Costituzione italiana e dalle direttive europee, si è trasformato in un percorso a ostacoli, dove i tempi di legge non vengono rispettati e proliferano pratiche ai limiti della legalità.

La procedura dovrebbe essere semplice: la Prefettura rilascia il nulla osta entro 90 giorni, poi l’Ambasciata italiana nel Paese d’origine concede il visto in 30 giorni. In totale, quattro mesi. Nella realtà, le attese si misurano in anni. Il problema principale riguarda la seconda fase, quella gestita dal ministero degli Affari Esteri attraverso le rappresentanze diplomatiche all’estero. Dal 2019, la gestione degli appuntamenti per il rilascio dei visti è stata affidata ad agenzie private: Vfs Global, Bls International e Almaviva. Un’esternalizzazione che doveva semplificare le procedure, ma che ha creato un sistema opaco e disfunzionale.

LE TESTIMONIANZE: ATTESE LUNGHISSIME PER GLI APPUNTAMENTO E CORRUZIONE

«Le nostre Ambasciate e Consolati si trovano in alcuni casi a operare in contesti particolarmente complessi, soprattutto a causa della forte pressione migratoria e dell’alto numero di documenti falsi presentati dai richiedenti», ha risposto il sottosegretario agli Esteri Giorgio Silli a un’interrogazione parlamentare dello scorso marzo. Una giustificazione che non convince chi vive il problema sulla propria pelle. F. G., cittadino pakistano, aspetta da sei mesi di fissare un appuntamento all’Ambasciata italiana di Islamabad per il figlio minorenne.

Si è registrato correttamente sul sito di Bls International, ma il calendario non mostra mai disponibilità. Quando si è recato direttamente in ambasciata, ha trovato all’esterno personale non identificato che gli ha chiesto denaro per fissare l’incontro. B. S., cittadino italiano di origine burkinabè, non riesce a prenotare dal sito di Vfs Global in Costa d’Avorio per il figlio rimasto in Burkina Faso. Nessuna risposta né dall’agenzia né dall’ambasciata. Un connazionale gli ha suggerito di rivolgersi a intermediari che «in poche settimane risolvono il problema».

In Senegal la situazione è ancora più esplicita. I. D., cittadino senegalese, denuncia: «La corruzione è diventata così normale che nessuno la nasconde più. Basta leggere i commenti sulla pagina Facebook dell’Ambasciata italiana, non vengono nemmeno cancellati». Il Pakistan rappresenta il caso più emblematico. Con circa 300 mila cittadini, è la comunità più numerosa nell’Unione europea. Le testimonianze raccolte parlano di richieste di denaro fino a 3.000 euro per ottenere un appuntamento. Gli intermediari si appostano fuori dall’ambasciata di Islamabad e dalla sede di Bls International, avvicinando i richiedenti con proposte di “aiuto” a pagamento. La cifra cresce se il nucleo familiare è numeroso, anche quando si tratta di minori. Chi non può permettersi queste somme resta in attesa, spesso per anni, indebitandosi pur di riabbracciare i propri cari.

I tribunali italiani stanno riconoscendo sempre più spesso le ragioni dei ricorrenti. Il Tribunale di Roma, in un’ordinanza del gennaio 2024, ha scritto che «l’Ambasciata competente si è sostanzialmente limitata a tenere un silenzio mai motivato» e ha ordinato di fissare un appuntamento entro 15 giorni. Un’altra sentenza del luglio 2024 ha obbligato l’Ambasciata di Casablanca a fissare entro 10 giorni l’appuntamento per una madre marocchina, dopo che la piattaforma Vfs Global risultava bloccata «ogni giorno a qualunque ora». Il riconoscimento del danno economico sta diventando sempre più frequente: una sentenza dell’aprile 2025 ha condannato il ministero degli Affari Esteri a versare 1.050 euro per tre mesi di ritardo, un’altra del maggio 2025 ha riconosciuto 6.600 euro per 22 mesi di separazione forzata, da dividere tra ministero dell’Interno e degli Esteri.

QUEL POTERE SOSTITUTIVO CHE NON SOSTITUISCE

Quando i tempi di legge non vengono rispettati, i cittadini possono ricorrere al “potere sostitutivo”: un funzionario superiore dovrebbe intervenire per sbloccare la pratica. Anche questo strumento però si rivela inefficace. Gli uffici del ministero degli Esteri rispondono con celerità, ma solo per dichiarare la propria impotenza. Quelli delle singole ambasciate spesso non rispondono neppure alle richieste inviate via Pec dai legali. Dietro ogni pratica bloccata c’è una storia di sofferenza: padri che non vedono crescere i figli, madri separate dai bambini, coniugi che ignorano quando potranno riabbracciarsi. L’impatto psicologico è devastante, soprattutto per chi è fuggito da guerre e persecuzioni. Per molti titolari di protezione internazionale, il ricongiungimento familiare rappresenta l’unica possibilità di garantire sicurezza ai propri cari. La Dichiarazione di New York sui Rifugiati del 2016 aveva impegnato gli Stati ad ampliare queste possibilità, riconoscendo il ricongiungimento come strumento per una migrazione sicura e regolare.

LE PROPOSTE: MONITORAGGIO E RITORNO ALLA GESTIONE DELLE AMBASCIATE

L’inchiesta si conclude con raccomandazioni precise. A breve termine: rispetto dei tempi di legge e creazione di un sistema di monitoraggio indipendente per verificare l’operato delle agenzie esterne. A medio termine, una proposta più radicale: il graduale ritorno della gestione sotto il controllo diretto delle rappresentanze diplomatiche, potenziando le risorse del ministero degli Esteri. L’esternalizzazione, nata per semplificare, ha creato più problemi di quanti ne abbia risolti.

«Un sistema pubblico rafforzato è condizione indispensabile per assicurare equità di trattamento, effettività dei diritti e tutela dei legami familiari», scrivono gli autori del progetto. Il progetto “Annick. Per il diritto all’unità familiare”, curato da Melting Pot Odv in collaborazione con Circolo Arci Pietralata, ha documentato un problema sistemico che tocca migliaia di famiglie. Ogni storia racconta della stessa violazione: il diritto all’unità familiare, riconosciuto come fondamentale, che diventa un privilegio per chi può permettersi di pagare. In un’Europa che si è costruita sui valori di uguaglianza e solidarietà, queste testimonianze rappresentano una ferita aperta. Separare le famiglie non è solo una violazione dei diritti umani: è un fallimento della nostra civiltà.