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Quando era vivo cercarono in tutti i modi di sommergerlo con il fango. Le lettere del corvo, poi le voci messe in giro che l’attentato all’Addaura fosse una invenzione, alla fine le accuse in Tv di avere messo nel cassetto le inchieste sul terzo livello della mafia, per proteggere Andreotti o qualcun altro, chissà. Parlo di Giovanni Falcone, naturalmente. Il magistrato che più di tutti, nella storia d’Italia, ha fatto contro la mafia. E il magistrato che più di tutti, nella storia d’Italia, è stato bersaglio della critica feroce dell’antimafia ufficiale, e della “critica delle armi” di Cosa Nostra. La quale ha provato varie volte ad eliminarlo come aveva fatto con il suo maestro: Rocco Chinnici - e alla fine c’è riuscita con qualche quintale di tritolo fatto esplodere sotto il ponticello di Capaci, sull’autostrada di Palermo, mentre passava la sua Croma.
Dopo la morte, le critiche si placarono. Molti corsero ai suoi funerali. Molti dissero che era un eroe. Tanta retorica. Ma per Falcone non c’è mai pace, l’anti- falconismo è sempre vegeto. L’anti- falconismo è il luogo dello spirito dove mafia e antimafia si incontrano.
Né l’una né l’altra hanno mai perdonato a Falcone di avere fatto il suo lavoro con spirito scientifico e con un rispetto assoluto del diritto.
E’ passato un quarto di secolo, da quando l’hanno ucciso, e chi legge le motivazioni della sentenza del processo Stato- mafia, se non ha gli occhi foderati, si accorge che è esattamente questo: un attacco ad alzo zero contro Falcone, il falconismo, e i (pochi) uomini e donne che collaborarono con lui.
Ieri molti giornali riportavano il nome delle persone tirate in ballo dai giudici palermitani. Scorretelo appena, questo elenco, e farete un salto sulla sedia: Luciano Violante, Claudio Martelli, Giovanni Conso, Fernanda Contri, Liliana Ferraro. E poi, naturalmente, Mori, Subranni e De Donno, i tre carabinieri che gli furono a fianco per molti anni (e che hanno già subìto molti processi, sempre con le stesse accuse e sempre assolti). Tutti questi nomi sono i nomi delle persone che in modo più stretto e amichevole, in vari periodi (tra il 1983 e la morte) hanno lavorato gomito e gomito con Falcone, e lo hanno sostenuto anche quando le polemiche contro di lui diventarono asperrime.
Gli ultimi tre ( Mori, Subranni e De Donno), che sono quelli che hanno catturato Totò Riina, sono stati addirittura condannati, nel processo Stato- mafia, a molti anni di prigione. Gli altri no, nessuna condanna e neppure nessuna imputazione specifica. I giudici hanno solo scritto uno ad uno i loro nomi nelle motivazioni della sentenza per gettargli addosso un po’ di fango. Sono accusati di reticenza, o qualcosa del genere. Perché?
Perché non si sono dati da fare per accreditare la tesi di fondo del processo Stato- mafia (che purtroppo non è sostenuta da nessuna prova e nessun riscontro) e cioè che la mafia, guidata da Riina, trattò segretamente con i carabinieri, con pezzi dello Stato e con Dell’Utri (e un po’ pure con Berlusconi) prima e dopo l’uccisione di Paolo Borsellino. E che Paolo Borsellino fu ucciso perché si era accorto di questa trattativa, e voleva impedirla.
Davvero ci fu la trattativa? E se ci fu, e se la guidò il colonnello Mario Mori, come mai si concluse, in pochi mesi, con l’arresto di Totò Riina, dopo decenni di latitanza? Cosa concesse, Mori, al capo della mafia: le manette?
La tesi dell’accusa è singolare. Perchè, in assenza di prove, l’accusa si tiene tutta intorno a una congettura, a un teorema. Che però, anche come teorema, è assolutamente scombiccherato. Sostiene che la trattativa la guidarono, nella sostanza, Il presidente della Repubblica Scalfaro e il futuro presidente del Consiglio Berlusconi. I quali però si odiavano, ed erano in perenne e furibonda lotta tra loro. Non c’è nessuna logica nell’idea che furono i grandi vecchi della trattativa. Né tornano le date. Soprattutto per quel che riguarda Berlusconi, che entrò in politica in un periodo successivo alla stagione delle stragi e che, con il suo governo, non concesse nulla alla mafia, non realizzò nessuna delle misure chieste nel famoso “papello” che secondo i Pm sarebbe stato la base della trattativa.
E allora che c’entra Berlusconi? E cosa c’entra Dell’Utri? C’entrano, forse, per una sola ragione: che se il processo fosse stato solo ai carabinieri avrebbe avuto un’eco mediatica molto molto ridotta. Dell’Utri è il nome che garantisce spettacolarità alle accuse, e se contro di lui non c’è uno straccio di prova, poco male.
La sorte ha voluto che la pubblicazione delle motivazioni del processo Stato- mafia avvenisse in coincidenza con la sentenza del processo Borsellino quater. La quale ha stabilito che dopo l’uccisione di Borsellino fu compiuto il più grande depistaggio della storia della Repubblica. E che di questo depistaggio furono oggettivamente responsabili anche alcuni magistrati. Cioè quelli che indagarono e credettero al pentito Scarantino, che era stato imbeccato da qualcuno (poliziotto e/ o magistrato) per deviare le indagini. Bene, non solo questa sentenza non accenna neppure alla possibilità che Borsellino sia stato ucciso perché era contrario alla trattativa. Non solo non prende neanche in considerazione l’ipotesi che una trattativa ci fu. Ma la sentenza mette sotto accusa i magistrati che si fecero deviare, e ironia del destino - tra questi magistrati c’è anche il Pm del processo Stato- mafia, cioè Di Matteo. Di più: nella sentenza si avanza l’ipotesi che Borsellino fu ucciso per evitare che indagasse sul dossier Mafia-appalti, che era stato preparato dal colonnello Mori (carabiniere legato a Falcone), e quel dossier fu archiviato proprio nei giorni dell’uccisione di Borsellino dal Procuratore di Palermo Giammanco, su richiesta di alcuni Pm tra i quali Scarpinato, attuale Procuratore generale di Palermo.
Capite che la situazione è davvero kafkiana. C’è una sentenza che dice che Borsellino fu ucciso perché voleva indagare su una pista individuata dal colonnello Mori, il quale ci aveva lavorato con Falcone, e poi c’è un processo messo in piedi da uno dei Pm che fu coinvolto nel depistaggio sulle indagini sull’omicidio Borsellino, il quale ora pretende di dire lui perché fu ucciso Borsellino, e ottiene la condanna del carabiniere che indagava sulla mafia e con il quale Borsellino voleva collaborare, e infine indica come oggettivamente complici tutti gli uomini che all’epoca difendevano Falcone.
E’ un mostruoso testacoda. Mostruoso. Ci vorranno anni, forse, molto anni, per rimettere ordine in questa storia e ripulire il terreno da tutti i depistaggi. Oggi è difficile non provare dolore per la memoria di Giovanni Falcone presa in giro e infangata, e per le folli calunnie contro tutti quelli che lo appoggiarono, quando fu abbandonato, e poi lasciato uccidere dai mafiosi.