Era stato dichiarato latitante, nonostante non fosse stato messo a conoscenza del processo e, soprattutto, non fosse fuggito volontariamente. Il risultato è che viene giudicato in assenza e condannato a ventisei anni di carcere dal Tribunale di Milano il 24 ottobre 2001, sentenza che divenne definitiva il 26 marzo 2002. Ma ora, grazie al ricorso presentato dall'avvocata Marina Silvia Mori e a una dura battaglia contro lo Stato Italiano, che ha tentato di chiudere la questione unilateralmente, la Corte Europea di Strasburgo condanna il nostro Paese per aver violato l'articolo 6 della Convenzione Europea.

Parliamo della sentenza “Shala contro l'Italia” emessa il 31 agosto scorso, nella quale si è affrontata una serie di questioni fondamentali relative al diritto di un individuo a un processo equo e alla protezione dei suoi diritti umani fondamentali. La causa riguarda un cittadino kosovaro di nome Sami Shala, nato nel 1963, che è stato dichiarato “latitante” e giudicato in Italia senza che fosse presente al processo. La questione centrale in discussione era se il signor Shala avesse avuto un processo equo secondo l'articolo 6 della Convenzione per la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali. In particolare, Shala sosteneva di non avere avuto l'opportunità di esercitare determinati diritti di difesa durante le procedure legali che sono state riaperte dopo la sua cattura.

Tutto inizia nel 2013, quando venne arrestato dalle autorità albanesi in esecuzione di una richiesta di arresto provvisorio a fini estradizionali. Successivamente, il 28 agosto 2013, venne consegnato alle autorità italiane in base a un ordine di esecuzione emesso dalla Procura della Repubblica di Milano. Questo ordine era basato su una sentenza del Tribunale di Milano datata 24 ottobre 2001, che divenne irrevocabile il 26 marzo 2002. Un elemento critico in questa vicenda è che Shala sosteneva di non essere a conoscenza del processo a suo carico prima dell'arresto e della conseguente estradizione. La condanna a 26 anni di carcere per reati di traffico di stupefacenti era chiaramente eccessiva e motivata da uno stato di latitanza illegittimamente dichiarato, a fronte di episodi risalenti a oltre sedici anni prima. Nonostante ciò, la Corte d’Appello respinse tutte le istanze difensive e confermò la condanna. Tra le richieste respinte, c’era anche quella del giudizio abbreviato, che chiedeva la riapertura delle procedure. Tuttavia, questa richiesta fu considerata tardiva, poiché non fu avanzata contemporaneamente all'istanza di restituzione in termini. La Corte d'Appello di Milano respinse la richiesta e, come detto, confermò la condanna di Shala.

La difesa di Shala presentò un ricorso per Cassazione, sollevando numerose questioni, tra cui la nullità del decreto di latitanza, l'inosservanza della legge penale e delle norme processuali in merito all'incompetenza territoriale e la violazione delle norme processuali e della Convenzione Europea dei Diritti Umani in merito all'accesso al giudizio abbreviato. Ma niente da fare. La Cassazione rigettò il ricorso, nonostante il procuratore generale stesso, nelle sue conclusioni, avesse chiesto la riduzione della pena di un terzo in applicazione della richiesta di celebrazione del giudizio con rito abbreviato o, in subordine, la rimessione alle sezioni unite della questione relativa all’ammissibilità del medesimo rito alternativo.

La questione posta dall'avvocata Marina Silvia Mori con il ricorso alla Corte Europea è chiara. Il mancato diritto che spettava all'imputato giudicato in assenza di ottenere la celebrazione di un nuovo giudizio. Il fatto che Shala sia stato considerato latitante, nonostante i suoi recapiti all'estero fossero noti e che quindi poteva essere avvisato. D'altronde, la stessa Corte d'Appello aveva evidenziato che fosse del tutto verosimile che l'imputato non avesse avuto conoscenza della pronuncia della sentenza prima dell'instaurazione della procedura di estradizione. Ricordiamo che i fatti riguardanti Shala risalgono a prima della riforma Cartabia. Fatti che hanno dimostrato quanto siano state gravi le carenze che hanno afflitto, fino a poco tempo fa, l'ordinamento italiano in materia di giudizio in assenza dell'imputato. La riforma Cartabia, purtroppo venuta dopo, non poteva andare a beneficio dell'imputato in questione.

La Corte Europea ha esaminato attentamente questa controversia presentata dall'avvocata Mori e ha emesso la sua sentenza il 31 agosto scorso. Innanzitutto, la Corte ha respinto la richiesta del governo italiano di eliminare il caso dalla sua lista in base all'articolo 37 della Convenzione. La Corte, sposando la memoria presentata dall'avvocato, ha ritenuto che la dichiarazione unilaterale presentata dal governo non offrisse una base sufficiente per concludere che il rispetto dei diritti umani, come definito nella Convenzione, non richiedesse alla Corte di continuare l'esame del caso.

Nel merito del ricorso, la Corte ha esaminato attentamente le circostanze del caso e ha ritenuto che vi fosse una violazione dell'articolo 6 della Convenzione. In particolare, la Corte ha stabilito che Shala, condannato “in absentia”, non aveva avuto un'effettiva opportunità di ottenere una nuova determinazione delle accuse contro di lui da parte di un tribunale che lo avesse ascoltato conformemente ai suoi diritti di difesa. La Corte di Strasburgo ha sottolineato che Shala non aveva avuto l'opportunità di ricominciare da capo il processo, ma solo di appellarsi contro la sentenza di primo grado. Non risultava che fosse stata svolta alcuna attività di acquisizione di prove davanti alla Corte d'Appello, né che Shala fosse stato ascoltato personalmente da quel tribunale.

Gli furono negati i diritti di contestare la giurisdizione territoriale dei tribunali e di essere giudicato con la procedura abbreviata, diritti che avrebbe potuto esercitare se fosse stato presente nel processo di primo grado, quando invece era assente e rappresentato da un avvocato d'ufficio. La Corte Europea ha sottolineato che essere rappresentati da un avvocato d'ufficio in procedimenti svolti in assenza non costituisce di per sé una garanzia sufficiente contro il rischio di ingiustizia. Inoltre, essere giudicati da un tribunale competente in conformità alla legge nazionale è un problema rilevante per stabilire la giustizia complessiva ai sensi dell'articolo 6 della Convenzione.

La Corte ha quindi concluso che l'equità complessiva dei processi era stata viziata e che, contrariamente all'opinione del governo italiano, Shala non aveva ottenuto una nuova determinazione efficace delle accuse contro di lui in conformità con i requisiti dell'articolo 6. Infine, per quanto riguarda la questione dei danni, Shala non ha presentato alcuna richiesta in tal senso, ma ha chiesto il rimborso delle spese legali sostenute davanti alla Corte. La Corte ha ritenuto ragionevole concedere a Shala la somma di 7.000 euro per le spese sostenute davanti alla Corte, oltre a eventuali imposte dovute. La sentenza di Strasburgo nella causa Shala contro l'Italia rappresenta un importante riconoscimento dei diritti di un individuo a un processo equo. Ora la riforma Cartabia, ricordiamolo, ha messo mano alla disciplina del processo in assenza e può permettere ai casi come Shala di poter riaprire la procedura.