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È questione di giorni e la Consulta depositerà la sua pronuncia sulla legittimità costituzionale del 47ter, nella parte in cui non prevede la applicazione della detenzione domiciliare anche nelle ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta durante l'esecuzione della pena. La legittimità costituzionale era stata sollevata dalla Cassazione il 23 novembre del 2017, anno in cui si stava discutendo sull’attuazione della riforma penitenziaria che avrebbe, appunto, risolto il nodo della mancata equiparazione dell’infermità psichica con quella fisica. Ma tutto ciò si è infranto poi con l’approvazione della riforma, tagliando fuori tutta quella parte che riguardava proprio la salute mentale in carcere. Sta di fatto che, al di là delle vicende legislative, l'ordinanza della Cassazione ha realizzato un ampio percorso di sostegno a tale ipotesi, muovendo dal raffronto tra la regolamentazione attuale della condizione e il sistema di tutela dei diritti fondamentali della persona, costituzionale e convenzionale. Muovendo dalla constatazione di inapplicabilità della previsione di legge – pur mai espressamente abrogata – dell'articolo 148 del codice penale, la Cassazione evidenzia come la condizione dei soggetti colpiti da infermità psichica sopravvenuta sia caratterizzata da una sorta di «regresso trattamentale» e di «sostanziale degiurisdizionalizzazione» non esistendo – allo stato – reali alternative alla allocazione in strutture interne al circuito penitenziario. Da un lato c’è l’impossibilità di allocare i detenuti nelle Rems (altrimenti rischierebbero di diventare dei mini Opg), dall’altro c’è lo sbarramento legislativo che, per la corrente interpretazione delle relative disposizioni,esclude la patologia psichica dall'ambito di applicazione dell'articolo 146 (differimento obbligatorio della pena), 147 (differimento facoltativo) del codice penale e 47- ter (detenzione domiciliare) dell’ordinamento penitenziario. Sia la questione specifica, ma anche il disagio psichico in generale, è stata anche affrontata dall’ultima relazione al Parlamento del collegio del Garante nazionale delle persone private della libertà. «La mancata inclusione dell’infermità psichica – si legge nella relazione - insieme a quella fisica tra le cause di rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena (articolo 147 codice penale) e l’eliminazione della norma che, modificando l’attuale articolo 65 o. p., avrebbe introdotto negli Istituti penitenziari sezioni a gestione sanitaria destinate alle persone che hanno elaborato disturbi di natura psichica durante la detenzione in carcere, hanno privato dei necessari interventi un’area fortemente critica». È appunto l’area del disagio psichico, «la cui entità si manifesta in una quotidianità segnata da difficoltà relazionali che possono talvolta essere lette alla base dell’elevato numero annuale dei suicidi». Il Garante nazione delle persone private della libertà sottolinea che «la scelta operata dal governo appare incompleta anche nell’ottica di una visione di politica giudiziaria centrata sulle condizioni all’interno e non proiettata verso il fuori». Il Garante ne affida, pertanto, la riconsiderazione al Parlamento perché provveda, con «l’urgenza dettata dalla situazione attualmente riscontrabile negli Istituti penitenziari, a definire organicamente la materia del disagio psichico in carcere». Ma se non si muove la politica, forse ci penserà la Consulta.