Un avvocato tra i detenuti del carcere di Palermo per capire cos’è la vita senza libertà: la testimonianza di Francesco Greco, vicepresidente del Cnf. Fermiamo la strage dei suicidi in carcere, firma la petizione del Dubbio.  Quando ero presidente dell’Ordine degli Avvocati di Palermo organizzavo tutti gli anni una visita nelle due carceri palermitane, “Ucciardone” e “Pagliarelli”. Avvertivo, difatti, l’esigenza di dare attuazione a quello che, ritengo, è un compito ben più ampio di noi avvocati nel contesto della giustizia, che non deve fermarsi alla difesa nel processo, che ovviamente costituisce la funzione primaria e costituzionale del difensore, ma che - quali componenti essenziali ed indispensabili nel processo di attuazione della democrazia e dei principi costituzionali - si deve estendere anche alla verifica delle condizioni carcerarie, della funzione emendativa della pena, della funzionalità degli istituti alternativi alla detenzione e, quindi, anche a verificare che la carcerazione, seppur deve essere seria e grave, non si trasformi in occasione (e luogo) di tortura psicologica e fisica. Dunque, ogni anno giravo le due carceri palermitane, insieme ai colleghi del Consiglio dell’Ordine e delle associazioni degli avvocati penalisti. Il primo anno cominciai con il carcere “Ucciardone”. Riconosco che ero molto prevenuto: ero certo che la direttrice dell’istituto ci avrebbe fatto vedere le parti “migliori” del carcere, quelle nuove, ristrutturate, con le celle più grandi e meno affollate. E quando all’inizio di quello che immaginavo avrebbe cercato di trasformare in un veloce tour, inaspettatamente, mi chiese quali sezioni avrei voluto vedere, risposi senza esitare: “tutte”. “Benissimo” - replicò con mio stupore la direttrice - “se ha tre o quattro ore di tempo gliele faccio visitare tutte, tranne quelle con detenuti in isolamento od in regime speciale.” E così fu. Ricordo - tengo a precisarlo prima di ogni altra cosa - che mi colpì la grande preparazione, sul piano umano e professionale della polizia penitenziaria, il cui comandante, alla fine della visita, chiesi di incontrare per complimentarmi e ringraziarlo per il lavoro che gli agenti svolgono, difficile, difficilissimo, che comporta il saper ottenere, dimostrando umanità e comprensione ma anche quando serve rigore, il rispetto delle regole carcerarie proprio da chi si trova in stato di detenzione per aver violato le regole del vivere nella società. La mia prima visita, come tutte le successive, fu durissima, per le emozioni negative che provai, che non ho più dimenticato. Girai tutte le sezioni, percorrendo i corridoi lungo i quali, sul lato destro e sinistro si trovavano le celle dei reclusi, che si arrampicavano su più piani, tra i quali ci si muove attraverso scale strette e ripide, separate da pesanti cancelli di ferro chiusi con le grandi chiavi che si vedono nei film, che i secondini (una volta si chiamavano così) aprivano e richiudevano al nostro passare. Le pesanti porte in ferro delle celle erano aperte e i detenuti erano fuori, raccolti a discutere in capannelli lungo i corridoi di ciascun piano. Solo i cancelli che separava un piano dall’altro o un corridoio dall’altro erano chiusi. Sostanzialmente, i detenuti potevano entrare od uscire dalle singole celle e discutere con quelli delle celle adiacenti o vicine. Il confine era il cancello che separava un corridoio da un altro. Al nostro passare, apprendendo che eravamo avvocati, i detenuti mostravano stupore, ma al tempo stesso rispetto e riconoscente compiacimento. Mi spiegarono i collegi penalisti che il rispetto che i detenuti visibilmente esprimevano al nostro avanzare nasceva dal fatto che per chi è recluso l’avvocato rappresenta l’unica speranza di ottenere qualche sconto di pena, qualche concessione, qualche beneficio di qualunque genere, perché in quelle condizioni anche ciò che “fuori” può apparire insignificante, costituisce una conquista. Qualcuno, guardandoci, sussurrava con un tono sufficiente a farcelo sentire “l’avvocato lo vedo solo ai colloqui”; qualche altro riconosceva tra i colleghi penalisti che mi accompagnavano il loro difensore e lo salutavano con ossequio, domandando con sorriso “avvocá quando mi fa uscire?”. Già alla mia prima visita, così come nelle successive, non mi limitai a osservare le celle dall’esterno: chiesi subito all’ufficiale di polizia penitenziaria che insieme ad un sottufficiale e due agenti ci accompagnavano, di entrare nelle celle perché volevo capire cosa i provano detenuti, quali odori respirano, quali sensazioni percepiscono, quali immagini riproduce la loro mente ed il loro subconscio, quali emozioni prova un uomo in quelle condizioni. Io, dentro la cella per qualche minuto, loro per giorni, mesi, anni. L’ufficiale, essendo evidentemente stato preventivamente autorizzato dalla direttrice, che sicuramente immaginava che l’avrei richiesto, acconsentì il mio ingresso. Le sensazioni furono tremende: mi sentivo oppresso, compresso, schiacciato. Stanze di poche decine di metri ove vivevano 8, 10 o 12 uomini adulti, con una unica latrina aperta, senza la porta di chiusura, per ovvie ragioni di controllo, che però produceva una totale assenza di riservatezza ed il diffondersi degli odori. Chiesi il permesso ad un detenuto di sedermi, per un istante, nella sua branda. Non sono in grado di descrivere quello che provai. Sensazioni durissime: costernazione, oppressione, mancanza d’aria ma, lo ricordo bene, anche rabbia verso gli stessi detenuti, che quello stato di reclusione lo subivano per avere, con la loro condotta illecita, sostanzialmente accettato il rischio di finire lì. Il giro mi consentì persino di comprendere l’assurdità di alcune regole del carcere, che fuori possono apparire illogiche ed incomprensibili, ma che dentro servono a regolare la vita di migliaia di uomini che si trovano chiusi e costretti a vivere in pochi metri per avere offeso il vivere nella società. Il ricordo più duro che mi è rimasto scolpito è legato alle risposte che mi diede un detenuto, apparentemente anziano, al quale chiesi: “Da quanto è in carcere ?” Mi rispose : “Non lo ricordo”. Allora lo incalzai: “Come mai non ricorda, in che anno è entrato e quanto ancora ha da scontare?” Mi rispose con un sorriso: “non lo so !”. Quell’uomo, volutamente uso il sostantivo “uomo” e non quello di detenuto, aveva perduto la dimensione del tempo passato, del tempo presente e del tempo futuro. Ho ripetuto quella esperienza ogni anno nei successivi in cui ho rivestito la carica di presidente dell’Ordine degli Avvocati e posso dire, con assoluta certezza, che mi ha aiutato a comprendere meglio la realtà carceraria. Ho quindi pensato, caro Direttore, in occasione della campagna lanciata dal Dubbio sulle condizioni delle nostre carceri, di raccontarle questa mia esperienza per dire a chi ha sbagliato, a chi ha violato le regole, a chi è responsabile di qualcosa, che è giusto che paghi per intero e senza sconti, dal primo all’ultimo giorno la sua pena, frutto della condotta che ha tenuto, accettando il rischio della risposta sanzionatoria dello Stato. Ma è altrettanto giusto, e questa volta mi rivolgo alla coscienza di chi ha le responsabilità giuridiche e politiche, che il luogo di detenzione non sia un luogo di tortura.