Nel mio lungo tour delle prigioni ho acquisito dimestichezza con la morte, una componente di cui sono permeate le pareti delle celle. L’odore ferroso del sangue che cola, gli occhi sbarrati di chi ha trovato la scorciatoia per la libertà inalando il gas della bomboletta o stringendosi al collo un nodo scorsoio, sono immagini che continuano a popolare i miei incubi notturni.

Autolesionismo, suicidi tentati e - troppo spesso - riusciti, diventano routine, soprattutto d’estate quando le poche attività che si svolgono in carcere sono sospese e ad abbondare rimane solo il tempo. Un tempo vuoto in cui si affollano i pensieri e sale la tensione per il caldo e per le mancate risposte. Solitudine e tempi che non si compiono mai diventano un mix esplosivo soprattutto per chi si trascina un corpo già minato dalla malattia, come Italo Calvi, 58 anni, che l’altro giorno ha ceduto. Ai figli è arrivata la solita telefonata intrisa di burocrazia: di buonora dal carcere di Opera li avvisavano che il padre era deceduto “per cause da accertare, sarà l’autopsia a stabilirne le dinamiche”.

L’avevano trovato appeso con un lenzuolo alle sbarre. Fatico ad immaginare cosa sia passato per la testa di Italo in quegli istanti in cui ha preso la decisione che probabilmente covava da tempo. Anzi, credo di saperlo e proprio per questo sono incazzato con il mio amico che scendeva dai monti. E forse avrebbero dovuto saperlo anche coloro ai quali era affidata la custodia di quel montanaro pacioccone, sempre con il sorriso anche di fronte alle difficoltà della vita e orgogliosamente bellunese nella parlata, una caratteristica che non ha perso nemmeno dopo tanti anni in Germania dove aveva cercato di ricostruirsi una prospettiva di futuro. Lontani i tempi

in cui pensavamo solo all’apparenza, quando a un casello dell’autostrada ci scambiavamo Porsche e Bmw pur sapendo che non saremmo mai diventati soci: un uomo di mare e uno che scende dalle montagne del Veneto avrebbero potuto condividere solamente la voglia di fare, di riuscire. Errori compresi, ma ognuno sbagliando per conto suo. Poi è arrivato quel tumore devastante, che avrebbe destabilizzato chiunque, e, poco dopo, la condanna definitiva per reati fallimentari risalenti a più di dieci anni prima. Un tempo nel quale Italo ha vissuto sapendo di avere una spada di Damocle sul capo che tuttavia non gli ha impedito di continuare a sognare una vita “normale”, fatta di semplicità e cene intorno al camino nelle sue montagne, attorniato dagli amici ai quali ha dato tanto e, magari, dai figli con i quali cercava di riappacificarsi dopo una vita vissuta al limite, talvolta oltre le regole sociali ma senza sottrarsi alle proprie responsabilità.

La normalità a cui aspirava Italo è passata attraverso la decisione di andarsi a costituire immediatamente quando la Cassazione ha reso irrevocabile la condanna a sei anni per bancarotta fraudolenta. Voleva ricominciare, aveva fretta di girare pagina. Mi aveva sorpreso la sua scelta di bussare ad Opera, per esperienza personale gli avevo consigliato di presentarsi in un istituto più piccolo, a misura d’uomo, ma il testone bellunese aveva fretta e voleva sbrigarsi.

Le sue condizioni di salute avrebbero consentito il rinvio facoltativo della pena, ma era d’estate, e l’udienza di ottobre pareva lontanissima nella mente di quel montanaro abituato a fare tutto e subito, come quando saliva sul trattore per spalare la neve dalle strade delle sue montagne. L’uomo del monte ha voluto primeggiare ancora.