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In uno scenario in cui la retorica securitaria impera e trova sosta solo nella monotona soluzione carceraria, alla barbara invocazione di “gettar via le chiavi”, una riflessione sulla prigione e, in generale, sul sistema penale risulta già di per sé preziosa. Se poi una simile riflessione procede da un lungo lavoro di ruminazione filosofica e tende non solo a una riforma presuntamente umanitaria della pena ma a un sovvertimento della razionalità con cui si intendono le relazioni sociali, anche quelle con gli individui fragili e rei di aver sbagliato, allora essa giunge come una insperata boccata di aria fresca dove le scorie intellettuali rendevano l’ambiente invivibile. E quello che il sistema penale occidentale, soprattutto nella sua connotazione punitiva e carceraria, richiede è davvero un ripensamento radicale.
Sono assai note le ricerche che negli anni Settanta Foucault ha dedicato a questa realtà, interrogandosi sul suo profondo significato, ricercando la provenienza storica e portando alla luce la vera natura della punizione carceraria: essa, si può riassumere, si colloca al margine della dimensione sociale reputata normale e retta, ma instaura con essa uno stretto rapporto di interscambio. Una specie di catena di montaggio collega il dentro del carcere rispetto al fuori, alla città, alla libertà; o, viceversa, il dentro della società con quel fuori dove vengono esclusi i rifiuti umani. Al punto che non esistono davvero un dentro e un fuori; esiste bensì un complesso sistema che normalizza dentro il carcere ciò che poi si potrà operare fuori dalle sue mura: quella della sicurezza, quindi, è una mera illusione, rivelandosi piuttosto il movente grazie a cui si procurano le condizioni per un potere erosivo nei confronti dello stato di diritto.
Ancora più in profondità si spinge Umberto Curi nel suo Il colore dell’inferno:
una profondità che gli viene aperta dalla sua capacità di sondare un passato che non è solo quello cronologico della genealogia, bensì quello mitologico, che struttura in maniera inconsapevole ma pervicace il nostro pensiero. È lì che ci si può collocare, per interrogare il significato della punizione, il tipo di relazioni che essa conforma, il modello di società da cui essa può essere accolta con più o meno coerenza. In un serrato, ma accessibile, confronto con questi significati, Curi si pone delle domande che oggi non possono davvero più essere evitate se si vuol uscire dai paradossi che inquinano il nostro vivere collettivo. Fra tutte: il sistema penale moderno è uscito dalla logica della vendetta? Perché una società che si ritiene avanzata sente l’esigenza di infliggere una sofferenza a un proprio membro al fine di rispondere alla sofferenza che egli ha provocato?
Non solo, come ci ha dimostrato Foucault nei decenni scorsi, la pena carceraria si rivela nociva anche per i membri dell’intero sistema sociale che la invoca. Sotto la lente di ingrandimento di Umberto Curi essa si dimostra irrazionale, incapace di produrre gli effetti che intende perseguire: un germe di irrazionalità all’interno di un sistema giuridico che si vorrebbe invece razionale e conseguente. Se interrogati sul senso della pena, spesso si fa appello alla categoria del merito: il reo merita la pena perché trasgressore di una specie di contratto, proprio come nell’antico rapporto fra un debitore e il suo creditore per cui quest’ultimo poteva rifarsi sul corpo del debitore insolvente. La possibilità di infliggere un dolore rappresentava allora un godimento che retribuiva il creditore pur non risarcendolo della perdita, precisamente come fa oggi la privazione della libertà o della vita. Lo squilibrio provocato dalla trasgressione rimane invece intatto: dove risiederebbe quindi la razionalità della pena?
Vi sarebbe infatti un barlume di razionalità se la pena riuscisse a cancellare il reato, a far come se non ci fosse mai stato e a reintegrare l’ordine universale. Si tratta di una pretesa dalla chiara origine mitico- religiosa, che tuttavia la religione cristiana ha abbandonato in favore della prospettiva della misericordia, mentre viene assunta con tutti i suoi paradossi da una illusoria concezione rieducativa della pena, che fa dello Stato il depositario di valori, obiettivi e universali cui ricondurre il reo.
Uscendo da un dibattito tutto giocato dentro simili paradossi, l’analisi di Curi permette di prendere coscienza che il nostro di- ritto replica, solo ammodernandola e ricoprendola di una patina quasi umana, la logica della vendetta, ossia una logica capace di offrire un fugace e superficiale appagamento, ma del tutto impotente rispetto a quel senso di giustizia e di buona relazione che si muove nel profondo del vivere civile. Mettendo in luce la logica intima della pena, la proposta cautamente, ma acutamente, elaborata da Curi muove verso una definizione riparativa della giustizia: una prospettiva che superi la logica del castigo, e che rimetta in primo piano le figure in carne e ossa del reo e della vittima, considerandole come me mbri di una comunità, e impegnando il colpevole nella profonda e volontaria ricerca di soluzioni al conflitto, allo scopo di favorire la riparazione del danno e la riconciliazione delle parti.
Si tratta di una proposta impegnativa e, per i meno ottimisti, perfino utopica; e tuttavia non mancano esempi e sperimentazioni in questo senso, volti cioè alla ricostruzione delle relazioni, al reinserimento anche di quegli individui più fragili che nel sistema attuale subiscono solo emarginazione, sospetto e odio, rimanendo incastrati in una coazione a ripetere i loro errori.