Il carcere per i giornalisti è all’estremo limite della legittimità costituzionale, ma non lo oltrepassa del tutto. E così che si può rendere in sintesi la decisione comunicata ieri dalla Consulta, costretta (dall’inerzia del Parlamento) a pronunciarsi sulle due norme che prevedono la pena detentiva per la diffamazione a mezzo stampa: resta in piedi, dunque, il “famigerato” articolo 595, terzo comma, del codice penale che, come ricorda la Corte attraverso il proprio ufficio stampa, «prevede, per le ordinarie ipotesi di diffamazione compiute a mezzo della stampa o di un’altra forma di pubblicità, la reclusione da sei mesi a 3 anni oppure, in alternativa, il pagamento di una multa. Quest’ultima norma consente infatti al giudice di sanzionare con la pena detentiva i soli casi di eccezionale gravità».

Una decisione non del tutto soddisfacente rispetto alle attese dei giornalisti, che avevano ottenuto di poter comparire nel giudizio, attraverso il loro Ordine nazionale. D’altronde, ricorda la nota, resta «attuale la necessità di un complessivo intervento del legislatore, in grado di assicurare un più adeguato bilanciamento – che la Corte non ha gli strumenti per compiere – tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela della reputazione individuale, anche alla luce dei pericoli sempre maggiori connessi all’evoluzione dei mezzi di comunicazione, già evidenziati nell’ordinanza 132». In attesa delle motivazioni, che saranno depositate nelle prossime settimane, già si intravede come la valutazione del giudice delle leggi sia connessa anche alla rivoluzione portata dal web. Peraltro l’ufficio stampa della Consulta fa notare come la sentenza «non riguardi solo i giornalisti» ma chiunque: anche chi, evidentemente, diffama con un commento sui social.

Le questioni esaminate ieri erano state sollevate dai Tribunali di Salerno e di Bari, che avevano evocato il possibile contrasto, tra l’altro, con l’articolo 21 della Costituzione e l’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Questioni «tornate all’esame della Corte», si ricorda nella nota, «un anno dopo l’ordinanza n. 132 del 2020 che sollecitava il legislatore a una complessiva riforma della materia». Cosicché la Corte, «preso atto del mancato intervento del legislatore», ha dichiarato «incostituzionale» solo l’articolo 13 della legge sulla stampa ( la numero 47 del 1948), che «fa scattare obbligatoriamente, in caso di condanna per diffamazione a mezzo stampa compiuta mediante l’attribuzione di un fatto determinato, la reclusione da uno a 6 anni insieme al pagamento di una multa». Ma ha appunto «ritenuto compatibile con la Costituzione» l’articolo 595 terzo comma. Evidentemente, anche per i suoi contenuti “estensivi” rispetto al campo dell’informazione professionale.