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Non è stato un errore di battitura (riferimento all’art. 25 invece all’art. 24 del Regolamento Unico della Previdenza Forense), né una svista terminologica (“temporanea abrogazione” anziché “temporanea sospensione”) a determinare il respingimento della richiesta della Cassa Forense ai ministeri vigilanti di prorogare al 2023 “la temporanea abrogazione (ossia sospensione) del contributo integrativo minimo a carico degli iscritti, fermo restando il pagamento del contributo integrativo nella misura del 4% sull’effettivo volume d’affari Iva dichiarato” effettuata con la nota n. 279205/P del 7 novembre 2022.
Il vero motivo, riportato nella lettera del ministero del Lavoro del 13 febbraio scorso, a firma del direttore generale Angelo Marano, è quello illustrato dal commento del Mef (nota n. 263264 del 2.12.2022), ossia che “appare poco prudente e inopportuno sospendere, nelle more dell’approvazione dello stesso (ossia della riforma del sistema previdenziale dell’Avvocatura), la riscossione della misura minima del contributo integrativo”. A proposito di questa riforma, il MinLavoro ricorda che il testo è stato presentato ai dicasteri competenti solo il 2 febbraio 2023 (pur essendo stato approvato dagli organi della Cassa il 28 ottobre 2022), e la legge prevede un’istruttoria di 180 giorni, che potrebbe protrarsi laddove i ministeri vigilanti necessitino di ulteriori elementi informativi. È quindi ragionevole attendersi un ok non prima del mese di agosto, e presumibilmente alla ripresa delle attività dopo l’estate. Ma il richiamo alla riforma della previdenza forense è dovuto al fatto che l’ente previdenziale degli Avvocati aveva giustificato la continuazione della sospensione, ancorché consentita solo per gli anni 2018-2022 (ex art. 25, comma 7, del Regolamento previdenziale) con l’armonizzazione con le regole previdenziali future (che, salvo ritardi, dovrebbero entrare in vigore il 1° gennaio 2024).
Inoltre il ministero guidato da Elvira Calderone ha segnalato al riguardo della riforma previdenziale, e della sua entrata in vigore, che essa «non ancora approvata dai ministeri vigilanti, non possa essere presa a riferimento per le modifiche in esame in quanto non è in grado di produrre alcun effetto». Laddove, infatti, «la riforma non dovesse entrare in vigore nei tempi auspicati, reiterando la medesima logica alla base del provvedimento in esame, si renderebbe necessaria una nuova delibera di sospensione del pagamento del contributo integrativo minimo, con ulteriore evidente peggioramento dell’equilibrio gestionale del relativo anno».
Nella lettera ministeriale viene riportata l’indicazione della platea di soggetti interessati potenzialmente dalla misura di sospensione del contributo integrativo minimo, che risulta essere di 73.691 professionisti, pari al 32,5% dei 227.000 iscritti a fine 2022 alla Cassa, di cui 25.923 sono avvocati con un fatturato annuo inferiore a 8.875 euro, mentre 48.038 posizioni riguarderebbero avvocati iscritti da almeno 10 anni, e con fatturato annuo inferiore a 17.750 euro. Proprio in base a questi numeri, il ministero dell’Economia ha osservato che dalla sospensione in esame discenderebbe un beneficio marginale annuo di poche decine o centinaia di euro. Si apprende poi che, sulla base delle stime della stessa Cassa Forense, il costo in termini di minor gettito di contributi sarebbe pari a 25 milioni di euro, ossia il 3,8% del totale delle entrate relative al contributo integrativo.
Ma come ha reagito la Cassa a questo diniego? «A mio avviso – chiosa Valter Militi, presidente della Cassa Forense – la risposta del ministero non è condivisibile dal punto di vista sostanziale e formale. In primo luogo, se il nostro ente previdenziale ha valutato, nella sua autonomia, la sostenibilità della riduzione delle entrate per 25 milioni, questa valutazione dovrebbe essere rispettata. Per quanto riguarda la forma, lascia perplessi sia la valutazione del ministero che alcune centinaia di euro (il contributo minimo integrativo obbligatorio è oggi di 770 euro, e scenderà a 250 con la riforma) siano poca cosa per quegli avvocati, che non sono pochi, che hanno redditi bassi o bassissimi, sia l’invito ad indagare decine di migliaia di posizioni per verificare se i professionisti esercitano altre professioni, oppure il lavoro dipendente».
Un altro elemento che desta una qualche inquietudine è l’esplicito riferimento della nota ministeriale alla circostanza che non è detto che la riforma previdenziale venga approvata, o che comunque diventi operativa nel 2024. «Premesso che se ci saranno rilievi, li affronteremo – assicura Militi – vale la pena sottolineare che la sottintesa critica che si intravede con l’evidenziazione che la riforma è stata comunicata ai dicasteri vigilanti solo ai primi di febbraio, pur essendo stata approvata a fine ottobre 2022, va totalmente respinta, in quanto, solo dopo l’approvazione della riforma è stato possibile incaricare gli attuari per la predisposizione dei bilanci tecnici, operazione che non si poteva certo fare in qualche giorno».
Ma ora cosa succederà? «Spetta al Comitato dei delegati – continua Militi – valutare se la risposta del Ministero del Lavoro va condivisa o meno. Personalmente ritengo che sia possibile che l’organo della Cassa riconfermi le valutazioni alla base della richiesta, e se così fosse, non si può escludere un ricorso al Tar, che però dovrebbe aver luogo prima del 13 aprile, ovvero entro 60 giorni dalla decisione ministeriale».