«La pena, per chi è stato condannato da innocente, è un’ingiustizia. Per chi è stato assolto, o mai processato, è un assurdo. Una Giustizia che la infligge, non per errore, ma per legge, è una macchina di dolore umano non giustificato e non giustificabile. Ad azionare quella macchina è un potere arbitrario, radicato nel cuore della democrazia, che ha trasformato l’eccezione nella regola, imponendo in nome dell’emergenza permanente, proclamata come un dogma, un diritto spiccio, che dismette le prove per il sospetto, confisca aziende e beni senza un giudicato, commina squalifiche e interdizioni civili.

È il «diritto dei cattivi», fondato dopo l’Unità d’Italia per combattere i briganti, usato a piene mani dal fascismo per perseguitare i dissidenti, ignorato dai costituenti repubblicani, che ne immaginavano l’abolizione, e ripristinato dal legislatore negli ultimi quarant’anni. Quel diritto è arrivato a noi, come un’anomalia che è diventata la norma. Come un rimedio peggiore del male che si propone di combattere. Qui si raccontano gli abusi, gli sprechi, i lutti, il dolore e l’inquinamento civile perpetrati, in nome della lotta al crimine, da un sistema burocratico, giudiziario, politico e affaristico cresciuto a dismisura e fuori da ogni controllo di legalità e di merito.

Questo sistema è ciò che conosciamo con il nome di «Antimafia». È fatto di leggi speciali. Di sentenze che anticipano leggi e poi diventano leggi. Di pene che aumentano a dispetto del diminuire dei reati. Di procure che hanno accresciuto il loro potere fino ad assumere un ruolo politico e ad assegnarsi il compito di bonificare la democrazia. Di confische e sequestri con cui lo Stato espropria enormi patrimoni privati. Di imprenditori interdetti nella loro attività in nome di un sospetto, che si diffonde per contagio, come un virus.

Di prefetti, amministratori giudiziari e associazioni di volontariato, la cui funzione o il cui profitto dipendono, a vario titolo, dalla crescita continua del sistema stesso. E, da ultimo, di una retorica che accompagna l’avanzare dell’Antimafia nella democrazia. Nelle pagine che seguono mi chiedo se questo sistema fosse indispensabile per sconfiggere la mafia, se e in che misura ha adempiuto al suo compito, perché è cresciuto oltre ogni previsione, qual è oggi la sua funzione e quali effetti collaterali produce per la società, chi lo promuove e perché, che rapporto ha con la crisi della giustizia italiana e quali sono i vantaggi, o piuttosto i rischi, di una sua ulteriore espansione.

La genesi di questo libro ha quella che chiamerei una scintilla personale. Nell’estate del 2017 mi trovo a Napoli ormai da sei anni per dirigere «Il Mattino», quando in Parlamento e nel dibattito pubblico si discute se equiparare i corrotti ai mafiosi. Mi pare un’aberrazione. Il fatto che la mafia persegua i suoi traffici facendo sempre meno ricorso alla violenza, e sempre più alla trama di relazioni inquinate che riesce a stabilire con il Palazzo, non significa che tutti i corrotti debbano essere considerati alla stregua dei mafiosi. E invece proprio in quei mesi questa confusione illogica sta per realizzarsi con una legge che estende il Codice antimafia ai reati contro la pubblica amministrazione, fino al peculato.

Chi non sa che cosa sia il Codice antimafia non può capire quanto sia grave questa decisione. Cominciamo con il dire che si tratta di una legge che disciplina un giudizio sommario, chiamato «procedimento di prevenzione». È un rito in cui l’accertamento della verità non si fonda su prove, ma è supposto sulla scorta di indizi, sospetti, valutazioni probabilistiche che non hanno alcuna incontrovertibilità. Sulla base di accertamenti superficiali il procedimento di prevenzione sequestra e confisca beni e aziende e commina misure che limitano la libertà, con effetti non molto diversi da quelli prodotti dalle condanne penali e dalle misure cautelari, previste dal diritto ordinario. Con una differenza sostanziale: i destinatari delle misure di prevenzione spesso non sono colpevoli, cioè persone giudicate e condannate. E talvolta non sono neanche sospettati per un reato specifico. Sono però considerati soggetti pericolosi. E come si valuta la pericolosità? Dalla loro abituale condotta, dal tenore di vita, dall’idea che si mantengano con i proventi di delitti, ancorché non ci sia prova di alcun delitto specifico.

Ma non finisce qui. Perché accade che la pericolosità si estenda dalle persone alle cose. Cosicché le misure di prevenzione si applicano anche nei confronti di quei beni che rischiano di finire nelle mani di persone pericolose. Con questa giustificazione vengono sottratti ai legittimi proprietari, che non sono pericolosi, ma che siano venuti in contatto, anche del tutto involontariamente, con altri soggetti giudicati a rischio.

Talvolta i cittadini a cui sono stati confiscati i beni vengono anche giudicati innocenti, cioè sottoposti a un processo penale e assolti dal diritto ordinario, ma nel frattempo il patrimonio o l’impresa gli sono stati già confiscati dal diritto speciale di prevenzione. Pensate all’assurdo logico che si realizza quando una persona viene, allo stesso tempo, riconosciuta innocente e colpita da una misura afflittiva come la confisca di una casa o dell’azienda di una vita.

Per trent’anni l’assurdo è stato spiegato così: tu non c’entri niente ma Io, Stato, mi prendo la tua proprietà per proteggerti, cioè per impedire che la mafia possa infiltrarsi. Con l’estensione delle misure di prevenzione l’equazione logica diventa: non so se tu sia persona onesta o corrotta, ma Io, Stato, mi prendo la tua proprietà per impedire che possa diventare oggetto di corruttela…».