Al Tribunale di Livorno è stata allestita una mostra con le foto di uomini condannati per femminicidio con tanto di nome, città, anno, arma del delitto e pure il nome della vittima. «E non è tutto – ci dice la presidente della Camera penale di Livorno, Aurora Matteucci -. Purtroppo erano effigiati come se fossero essi stessi vittime dell’arma che hanno usato per il delitto commesso. Un “dente per dente occhio per occhio” in chiave contemporanea che evoca antichi supplizi. Il condannato è stato elevato ad esempio, come uno strumento di prevenzione generale». Come dire, «a chi sale le scale del Tribunale, società civile e imputati che dovranno essere giudicati, che il condannato per quei reati si merita una pena identica a quella inflitta alle persone offese».

Il contrario, per Matteucci, «di quanto afferma l’art. 27 Cost che stabilisce che il condannato è un fine e mai un mezzo, è protagonista di un’opera di risocializzazione complessa che, se funzionasse a dovere, consentirebbe il reinserimento e la restituzione di una persona rinnovata nel tessuto sociale, una persona che non può e non deve mai identificarsi solo con il reato che ha commesso». «Questo approccio repressivo – prosegue Matteucci - rischia di sfuocare, appiattire, banalizzare e semplificare il complesso fenomeno della violenza maschile contro le donne, riducendola entro lo schema mortificante del paradigma vittimario. Sia chiaro, a scanso di equivoci».

«Non intendo – prosegue Matteucci - negare che le donne sopravvissute (o peggio, non sopravvissute) alle violenze perpetrate dagli uomini non siamo state vittime di un reato, da accertare all’esito di un processo giusto e da punire con una condanna che non deve essere esemplare, ma giusta. Ma intendo stigmatizzare il ricorso a visioni, messaggi e narrazioni ideologiche e politiche che richiamano logiche ispirate ad un “uso strumentale del femminile e della violenza di genere per promuovere e legittimare politiche securitarie e repressive” (T. Pitch)».

Quella del punire, è divenuta, ormai, «una “passione contemporanea” che origina da un’opinione pubblica concentrata sulla necessità di dare sfogo ad istanze repressive. Questo determina, a cascata, un vero e proprio avvitamento che tende ad annullare, mortificare e svilire la complessità dei fenomeni da cui traggono origine e linfa vitale i comportamenti violenti, impedendo di fatto ogni riflessione che sia capace di svelare, prima di tutto, natura ed estensione del gender crime».

Facciamo notare alla presidente che c’è chi sostiene che quella mostra è/ era arte. «Non entro nel merito del valore artistico dell’opera. Il punto per noi è un altro. È ovvio che l’arte veicola messaggi politici. Persino la scelta della sede - un Tribunale penale - contiene in sé un esplicito messaggio politico: deve far da monito, esprimere una forma di prevenzione generale. Un Tribunale dovrebbe, al contrario, rappresentare la sede fisica e simbolica di tutela della nostra Carta fondamentale e nella quale chi è imputato possa sapere che il giudizio sull’accusa che pende a suo carico sia assunto con il rigore, l’equilibrio e l’equidistanza che mancano purtroppo ormai nella narrazione mediatica».

Qualcuno sostiene che abbiate applicato la censura nel richiedere la rimozione della mostra: «La nostra reazione non è stata censura, come è stato detto. Abbiamo chiesto che nel bilanciamento dei principi costituzionali a prevalere fosse, in quel luogo, il diritto alla dignità che deve avere anche un condannato. Diverso sarebbe stato se fosse stato scelto un altro luogo. Avremmo criticato l’iniziativa ma non ne avremmo chiesto la rimozione».

Il Tribunale di Livorno è zona franca per il diritto all'oblio? «Purtroppo non solo il Tribunale. La nostra, per usare le parole di Giovanni de Luna, è ormai una “Repubblica del dolore”. Si è scelta la memoria, anziché l’indagine storica, ci si affida a rituali collettivi di evocazione del dolore come forme di espiazione catartica di questioni sociali che dovrebbero trovare ben altre soluzioni. Quindi “non dimenticare”, “giustizia e verità”, “certezza della pena” (da intendere come certezza del carcere) costruiscono moderni mantra identitari. Dunque l’oblio non è considerato un diritto, piuttosto una sconfitta per una società che assegna alla gogna perenne e imperitura una funzione di catarsi collettiva. Per carità: non dico che debba essere interdetta ogni riflessione su fatti accaduti, ma dovremmo provare a farlo restituendo complessità ai fenomeni, uscendo da metodi narrativi propagandistici».

Anche la Camera penale di Roma «condivide la ferma presa di posizione della Camera penale di Livorno e la vivace reazione del presidente della Giunta dell’Unione delle Camere penali italiane, avvocato Gian Domenico Caiazza, che ha definito invece “raccapricciante, mostruosa, grave e vergognosa” l’iniziativa». Matteucci «ringrazia i colleghi romani, come le Camere penali distrettuali toscane e la Commissione Pari opportunità dell’Ucpi per il sostegno» .