Ha suscitato qualche polemica tra gli avvocati l’iniziativa presa dal loro collega Luca D’Auria che assiste, insieme a Solange Marchignoli, Alessia Pifferi, la 37enne accusata di omicidio volontario aggravato per aver abbandonato a casa per sei giorni la figlia di 18 mesi Diana, provocandone la morte. Nella trasmissione Quarto Grado, in onda ogni venerdì su Rete 4, è stato infatti trasmesso un servizio in cui Pifferi chiamava dal carcere D’Auria, questo la metteva in vivavoce e a registrare il tutto c’era una troupe e una giornalista del programma. Titolo del servizio: «Diana, chiama il suo avvocato dal carcere chiedendo una foto di sua figlia». Alcuni si sono chiesti se il diritto di difesa possa spingersi a tanto. Per D’Auria, «lo scopo di questa iniziativa era quello di offrire una traccia di umanità e normalità di Alessia, pur sempre una mamma. Viene dipinta come un mostro, quasi tutti i giorni, in diversi programmi, dalla mattina alla sera. È considerata spregevole e non meriterebbe neanche di essere difesa. Io sto cercando di far capire alle persone che Alessia Pifferi è un essere umano e che come tutti, nel nostro Stato di Diritto, merita di essere tutelata. La scelta di andare in televisione nulla ha a che fare con quello che poi accadrà in tribunale, risponde semplicemente all’esigenza di umanizzare la mia assistita, dandole voce e facendo sentire a tutti: “ho sbagliato ma non volevo uccidere mia figlia”». Tuttavia alcuni sostengono che si è violato il rapporto avvocato/cliente: «Durante quella telefonata - prosegue D’Auria - non si è parlato di aspetti processuali, non lo avrei mai fatto, non è stato violato il segreto avvocato/assistito. La donna in altre occasioni ha scritto un suo diario che la mia collega ed io abbiamo portato a conoscenza di parecchie trasmissioni. L’intenzione è stata sempre quella di rappresentare alle orde barbariche di persone che urlano che la signora Pifferi è un mostro che così non è, che lei è un essere umano. Se chi critica la mia scelta avesse ascoltato con attenzione la telefonata si sarebbe accorto che non parliamo mai, ad esempio, di quanto emerso durante l’incidente probatorio né la signora si lamenta che i nostri consulenti non sono stati autorizzati ad entrare in carcere per sottoporla ad una perizia cognitiva. Dice solo: “voglio sapere dove è sepolta mia figlia, penso sempre a lei, e non vedo l’ora di raggiungerla”». Si intuisce da queste parole che c’è un forte rischio di un gesto autolesionista. «In un colloquio in carcere mi ha confessato che talvolta sente il bisogno di raggiungere la figlia. Questi tratti di incredibile malinconia – ci dice il legale - e vuoto esistenziale mi colpiscono e sento forte il bisogno di raccontarlo, anche e soprattutto a chi non lo vuol sentire. Assai probabilmente tra chi invoca il rogo per Alessia c'è qualcuno che la domenica si reca in Chiesa ad ascoltare la Santa Messa. Vorrei ricordare a costoro che il messaggio più forte e rivoluzionario della cristianità è quello di ascoltare gli ultimi e i peccatori e Gesù stesso si fa avvocato dei peccati umani dinanzi a Dio». Quindi per D’Auria «rappresentare questo dramma è per certi versi un dovere del difensore. Se posso cerco di trasmetterlo io, se non basta utilizzo le parole della signora Pifferi». Però in un recente suo libro (Giustizia mediatica - Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo) il professor Vittorio Manes ha scritto riguardo il processo mediatico: «Quando l'avvocato si presta a questo gioco lo fa però a suo rischio e pericolo, perché difficilmente governerà le correnti di opinione che si agitano nel vortice mediatico, dove il passo dai Campi Elisi alle paludi dello Stige può essere davvero breve». D’Auria replica che nel suo caso «non siamo nel territorio del processo mediatico. Quest’ultimo non tratta del dramma dell’imputato o della vittima, ma inserisce nei media la dialettica processuale». Ci permettiamo di dissentire perché il processo mediatico, tra le tante cose, è quello che sostiene di fare cronaca giudiziaria ma in realtà fa intrattenimento, alcuni li chiamano “criminal show” dove si discute di elementi che spesso non entrano proprio nel fascicolo processuale. «Secondo me - ci risponde D’Auria – il processo mediatico oggi non esiste più da dopo la strage di Erba. Chi è interessato può leggere il libro che ho scritto in materia, L'ontologia del crimine e della giustizia criminale oggi. La pop justice - La giustizia tra coscienza infelice e feticismo delle merci. In questo breve testo di filosofia giudiziaria sostengo proprio questo e cioè che il crime show non è giustizia mediatica perché non è servente al processo ma è un prodotto di puro intrattenimento per raccontare storie umane e non strettamente giudiziarie». L’avvocato conclude: «A nessuno può essere negato il diritto di invocare il proprio desiderio di piangere sulla tomba della propria figlia. Neppure all'assassino. La mia collega di difesa non è stata d'accordo con la mia scelta di far sentire al pubblico quella telefonata. Non posso dissentire con lei. Entrambi sappiamo quanto sia sola Alessia. Ha solo noi due e attraverso di noi vuol raccontare il suo dramma e la sua solitudine».