Non sono Luca Palamara e Stefano Rocco Fava le fonti degli articoli di stampa del 29 maggio 2019, per i quali i due sono a processo per rivelazione di segreto. A dichiararlo ieri in aula a Perugia sono stati i giornalisti Giacomo Amadori de La Verità e Marco Lillo de Il Fatto Quotidiano, autori di articoli che riguardavano la notizia dell’esposto di Fava, all’epoca pm a Roma, nei confronti dell’allora procuratore capo Giuseppe Pignatone. Sulle fonti entrambi i giornalisti si sono appellati al segreto professionale. «Per scrivere questo articolo - ha spiegato Amadori - ho sentito varie fonti». Il giornalista ha dichiarato di aver conosciuto Fava nei giorni in cui ha scritto l’articolo, per avere conferma dell’informazione che aveva ricevuto. «Quando gli ho fatto la domanda sull’esposto non ha smentito né confermato. Ricordo solo che è stato un colloquio stringato».

L’articolo in questione, ha ricostruito Amadori, «nasce in modo casuale: c’era stato un attacco alla possibile nomina di un candidato di Magistratura Indipendente e ho ritenuto interessante intervistare il segretario di Mi Antonello Racanelli così il 24 maggio sono andato in procura ad intervistarlo. Arrivato in Procura ho parlato con alcuni giornalisti e magistrati e ho appreso la notizia che c’era un esposto che era stato presentato da un magistrato progressista che non conoscevo, Fava, contro i suoi superiori», ha aggiunto Amadori, come riporta l’Agi. Da parte sua, Marco Lillo ha riferito in aula: «Per quell’articolo ho parlato con più di una persona ma non ho avuto la notizia dell’esistenza dell’esposto da Fava, né ho consultato Palamara per quell’articolo».

«Le dichiarazioni dei giornalisti mettono una pietra tombale su una accusa che sin dall'inizio non è mai stata in piedi». A dirlo al termine ieri dell’udienza a Perugia è stato l’avvocato romano Benedetto Buratti che insieme al collega Roberto Rampioni difende Luca Palamara nel procedimento per rivelazione del segreto. «Si faccia ora chiarezza sino in fondo su questa storia - ha poi aggiunto Buratti - e soprattutto su chi all'interno del Csm ha veicolato nel maggio del 2019 all'esterno intercettazioni segrete non solo per infangare la vita privata e la storia professionale di Palamara e di tanti magistrati perbene estranei a questa vicenda e che per tali ragioni sono stati sacrificati sotto l'aspetto disciplinare».

Con Palamara è imputato anche il giudice Stefano Rocco Fava. Secondo l’iniziale accusa, Palamara aveva “istigato” Fava a rivelare ai giornalisti del Fatto e della Verità alcune informazioni relative ad un procedimento penale aperto nei confronti dell’avvocato Piero Amara. Nei confronti di quest’ultimo Fava, all’epoca pm presso il dipartimento reati contro la Pa di Roma, aveva richiesto la custodia cautelare in carcere, poi non vistata dal procuratore Giuseppe Pignatone. Gli articoli, pubblicati il 29 maggio 2019, avrebbero allora avuto lo scopo di mettere in cattiva luce i vertici della Procura della Capitale segnalando dei possibili conflitti d'interesse. I giornalisti che scrissero i pezzi, pur potendo avvalersi del segreto professionale, interrogati durante le indagini negarono che le loro fonti fossero i due ex pm.

Anzi, uno dei giornalisti affermò di non aver mai conosciuto Fava e di aver visto Palamara la prima volta il giorno che era uscito il pezzo. Ricostruzione confermata anche ieri. I pm umbri ieri hanno chiesto di sapere quali fossero state le fonti dei giornalisti. Il collegio, dopo una breve camera di consiglio, ha respinto l’istanza.