Forse è una lezione. Carlo Nordio, neoministro della Giustizia, in passato implacabile censore del suo mondo, cioè della magistratura, chiama a fianco a sé a via Arenula un’avvocata, Giuseppina Rubinetti, come caposegreteria, e viene travolto dalla solita “onda Palamara”. Ecco, non riusciamo a definirla meglio, non troviamo un’espressione più efficace per descrivere la presunta disavventura del guardasigilli. In pratica, l’avvocata Rubinetti è stata descritta sul Fatto quotidiano di oggi come “Lady Palamara” perché, nell’aprile 2019, qualche settimana prima del cataclisma Hotel Champagne, osò programmare insieme con l’ex capo Anm una cena a sostegno di un magistrato, Luigi Birritteri, aspirante segretario generale del Csm. Una cena alla quale sarebbero stati invitati evidentemente altri magistrati, e magari qualcuno di quelli che potevano orientare il voto del Csm stesso verso la nomina di Birritteri. Un’attività di lobbying interna alla magistratura che è la semplice fotocopia di decine, centinaia, diciamo pure migliaia di occasioni analoghe createsi negli anni scorsi, e in parte tuttora in voga. Una fluidità relazionale e istituzionale da cui non è rimasto “immune” (ammesso che si trattasse di una così grave patologia) quasi nessuno. Ecco l’“onda Palamara”. Secondo il Fatto, Nordio, l’irreprensibile Nordio, sarebbe scivolato sulla nomina sbagliata, avrebbe individuato una figura non adatta in quanto compartecipe, come promotrice di quell’incontro, del sistema delle nomine. Lo stesso quotidiano diretto da Marco Travaglio deve pure riconoscere che la nuova caposegreteria di Nordio non è mai stata indagata (se organizzare cene a sostegno di magistrati fosse stata acquisita come condotta perseguibile, ora sarebbe sotto processo un buon 25 per cento dell’ordine giudiziario). E se non c’è nulla di penalmente rilevante, vacilla anche l’idea che possa esserci alcunché in termini etici: è davvero vietato vedersi in contesti informali per agevolare ambizioni professionali di chicchessia? Non è quello che fanno continuamente i politici, senza che questo crei chissà quale scandalo? Non è quanto avviene, in piccolo o in grande, in qualunque ambito in cui si gestisca una pur minima quota di potere? Naturalmente l’effetto-scandalo, sul piano giornalistico, è assicurato, e nemmeno si può capovolgere la questione etica addosso ai giornalisti del Fatto, che quell’effetto sono riusciti ancora una vota abilmente a riprodurre. Viene da dire solo una cosa, e cioè che se Rubinetti, come pare, non sarà affatto sacrificata da Nordio per la presunta “macchia” della cena con Palamara, il caso dell’avvocata potrebbe diventare paradigmatico, e persino pedagogico. Potrebbe cioè costringerci ad accettare l’idea, dopo anni di prassi “fluide” nelle relazioni paraistituzionali interne alla magistratura, che persone con un peso specifico nel mondo della giustizia, come Rubinetti appunto (presidente del cda di Equitalia Giustizia, tra l’altro), possano, con buona probabilità, essere ricollegate a qualcuno degli episodi riconducibili alle prassi di cui sopra. È inevitabile. Nel mondo della magistratura, quei comportamenti erano ordinari, abituali, e anche chi, pur non magistrato, faceva parte di una rete di relazioni sovrapponibile all’ordine giudiziario, può aver ipotizzato l’organizzazione di una cena per sostenere un amico giudice. Dobbiamo abituarci all’idea che la diffusività di quella stagione, e di quel mondo, ha avuto un carattere quasi ecumenico. Se vogliamo, dovremmo considerare episodi del genere come una sorta di lenta terapia omeopatica. Una scoperta al giorno per renderci conto, una volta di più, che quelle condotte informali e istituzionali tipiche della magistratura potranno pure suonare a qualcuno esteticamente sgradevoli, ma non erano reati, né erano proibite. E forse, anzi, sono state tali da non giustificare neppure la radiazione di Palamara. Hanno rappresentato un clima, una modalità di autogestione della magistratura dai risvolti più che altro sociopolitici, ma quasi mai a rilevanza disciplinare o penale. Dovremmo rinunciare a un po’ di ipocrisia e prendere la realtà per quella che è stata. E al limite sforzarci di immaginare come la realtà della magistratura italiana potrà essere un po’ migliore, ma senza far finta di inorridire dinanzi a un passato che, altrimenti, finisce per restare indecifrato, anziché ricomposto con la sguardo maturo di chi vuole fare un passo avanti.