Registriamo - con estrema amarezza - il verificarsi dell’ennesimo suicidio in carcere, questa volta nel penitenziario Lorusso e Cutugno di Torino dove un detenuto si è tolto la vita impiccandosi con un lenzuolo. Era in attesa di giudizio, detenuto per una accusa di stalking ai danni dell’ex compagna.

Continua ancora, dunque, la triste catena di suicidi tra i detenuti nelle carceri italiane. Da inizio gennaio, infatti, sono oltre sessanta le persone che si sono tolte la vita in cella, una media di un suicidio ogni tre giorni, probabilmente perché i detenuti hanno più paura di vivere che di morire. Assistiamo sgomenti a questi numeri in continuo incremento in cui il disagio della vita detentiva diventa insopportabile spingendo chi lo vive a compiere il gesto estremo. Un tema che sembra essere senza soluzione, rinviato più e più volte dalla politica perché scomodo, complesso, non prioritario come se tutti ci fossimo gradualmente assuefatti alla tragedia delle morti in carcere.

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Il carcere in Italia sembra non insegnare molte cose ma una cosa pare sappia fare bene vale a dire “convincerti” che è meglio togliersi la vita piuttosto che vivere la quotidianità in cella. Pensiamo non solo alla disperazione che sta dietro ad un simile gesto estremo ma traiamo conferma - ancora una volta - della totale inadeguatezza del sistema carcerario, incapace di assolvere alla funzione che gli sarebbe propria.

Coloro che giungono aduna decisione così estrema sono persone che non reggono l’impatto con la realtà carceraria tanto disumana quanto sterile nel reinserimento sociale del recluso. I problemi degli istituti penitenziari sono atavici ma la loro soluzione non è mai una priorità, quasi che anche la sola accusa mossa renda la vita – o anche la sola sopravvivenza – delle persone detenute questione di poco conto. La solitudine del recluso, in uno agli interminabili tempi della giustizia, aggravata dalle condizioni spesso inumane della detenzione, favorisce la triste decisione da parte di alcuni di porre fine alla loro vita.

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Ci si è spesi tanto al fine di tenere alta l’attenzione sulle misure cautelari come extrema ratio, sulla necessità che anche la Magistratura di Sorveglianza sorvegli davvero il fenomeno, sulla sanità penitenziaria e sulle patologie psichiatriche sempre più presenti nei nostri istituti senza una adeguata risposta. Il problema è evidentemente la carenza di personale, strutture, risorse e strumenti idonei a supportare il percorso psicologico dei detenuti più in difficoltà. Le stime su misure alternative e detenzione mostrano da tempo i risultati nei Paesi in cui le prime vengono privilegiate sulle seconde ovvero che il tasso di suicidi è nettamente più basso cosi come il rischio di reiterazione del reato una volta espiata la pena.

Ed allora, ben vengano amnistie e indulti, referendum contro l’abuso della carcerazione preventiva, modifiche dell’ordinamento penitenziario che consentano un parziale svuotamento delle carceri. Piuttosto che evocare la carcerazione come unica risposta, bisogna aspirare ad un carcere ridotto in cui i detenuti possano trovare nei loro educatori, nei loro psicologi, nei loro magistrati di sorveglianza quel rapporto di vicinanza che è l’unico strumento per consentire un reale percorso di recupero. La reazione all’ennesima tragedia in carcere dovrebbe scuotere le nostre coscienze, indurci a volere il meglio per ogni essere umano che non merita solo slogan e promesse perché questo non basta più e non deve bastare più. (Il Direttivo di “Carcere possibile Onlus")

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