Non essendo in grado di fornire risposte di tipo politico, o sociale, o culturale, o educativo a determinati fenomeni di cronaca, la politica sceglie puntualmente la via più breve, tra l’altro di facile consenso: quella di introdurre sempre nuove figure di reato, indipendentemente da qualunque fenomenologia criminale, da qualunque osservazione degli effetti che nuove pene hanno in concreto. Puntualmente, però, tali provvedimenti, a lungo termine non offrono la soluzione. E allora che fare? Si inaspriscono le pene. Ed è così che il governo ha subito emanato due decreti. Uno 'conservativo”, ovvero rendere il più difficile possibile – se non impossibile – la concessione dei benefici penitenziari ai detenuti che rientrano tra i reati cosiddetti “ostativi”. L’altro è spacciato per “salvifico”, mentre in realtà è l’inasprimento di una pena già esistente per risolvere l’emergenza (dettata dai mass media) “rave party”. In realtà c’è il sospetto che anche il terzo decreto, quello che rimanda a fine dicembre l’attuazione della riforma Cartabia, non sia così distante dal panpenalismo. Sì, perché contempla anche la giustizia riparativa e le misure alternative. Alla luce del mantra della “certezza della pena”, potrebbero fare qualche ritocchino in senso restrittivo? Ma è solo un’ipotesi, e si spera che venga smentita dai fatti. a conseguenza, tra l’altro dettata dalla retorica populista penale “certezza della pena”, è che pena significhi sempre più carcere, e soltanto carcere. Se la legislazione si è nel tempo evoluta, nel senso di affiancare alla detenzione pene e percorsi alternativi, nell’uso politico che si fa del tema tutto questo scompare, e fare giustizia significa quasi soltanto sbattere in galera e buttar via la chiave. Gli effetti concreti ce li abbiamo davanti ai nostri occhi: il sovraffollamento carcerario. Da ricordare sempre che, oltre al discorso dell’abuso della custodia cautelare (e quindi i relativi innocenti fino a prova contraria in carcere), abbiamo il dato che il garante nazionale delle persone private della libertà ha snocciolato nella sua recente relazione al parlamento: dei 54.786 detenuti registrati a giugno scorso e dei 38.897 che stavano scontando una sentenza definitiva, ben 1319 sono in carcere per esecuzione di una sentenza di condanna a meno di un anno e altre 2473 per una condanna da uno a due anni. L’emergenza carceraria, oggi ancora più esasperata per il numero abnorme di suicidi in carcere, è anche il frutto di una politica miope (e continua ad esserlo per ricercare il consenso) che ha voluto vedere nella sanzione penale, e, quindi, nel carcere, la soluzione di ogni problema. Il panpenalismo esasperato, una volta contestualizzato in un sistema che prevede l’obbligatorietà dell’azionepenale, una volta contestualizzato all’interno di un sistema sanzionatorio penale che è basato prevalentemente sulla privazione della libertà personale, e una volta contestualizzato in un sistema di misure, in cui non sono precisamente e tassativamente delineate le ipotesi di custodia cautelare in carcere, ci sta man mano riportando a quelle condizioni che fecero scattare la famosa sentenza Torregiani della Corte Europea dei diritti umani. L’articolo 4 bis, quello ostativo, è l’esempio perfetto del panpenalismo. Una norma che nasce come una eccezione (le stragi di mafia) ma che con il passar del tempo si è ampliata e come una calamita ha attirato a sé tutti quei reati che diventano – a seconda le emozioni del momento – delle vere e proprie emergenze. Anche quando le emergenze, di fatto, non ci sono. Tant’è vero che siamo arrivati fino alla “spazzacorrotti”. La famigerata riforma Bonafede che ha allargato il 4 bis anche nei confronti di chi commette reati di corruzione nella pubblica amministrazione. Se si analizza il catalogo dei reati ostativi contemplati nelle versioni di volta in volta innovate, si può allora constatare come tale catalogo si estenda al verificarsi di fenomeni criminali che suscitano un particolare allarme sociale (traffico di immigrati, reati a sfondo sessuale, terrorismo fino ad arrivare, appunto, alla corruzione). La norma evita le che persone condannate per determinati delitti (quindi non solo mafiosi), di volta in volta ritenuti sintomatici di pericolosità sociale, possano usufruire dei permessi premi (poche ore fuori dal carcere) o la liberazione condizionale: si è creata una presunzione di pericolosità superabile solo attraverso condotte collaborative o in presenza di determinati elementi e paletti quasi insormontabili per cercare di evitare che la sentenza della corte costituzionale si pronunci definitivamente. Nulla cambia, il governo Meloni è in perfetta continuità con il passato: si continua a legiferare con decretazione d’urgenza, reiterando i provvedimenti e incidendo su quelli già vigenti in chiave di inasprimento. I problemi di ordine e sicurezza non vanno ignorati, ma è non si può rispondere sempre con i soliti strumenti penali. Non è una visione sovversiva, ma liberale. Il tempo passa, e si rischia di non controllare più il fenomeno della bulimia penale. E come ogni malattia non curata, si rischia il collasso definitivo.