Non succederà, ma il suicidio di Roberto Zaccaria, 64 anni, dovrebbe porre un problema serio non su una specifica trasmissione, nel caso specifico Le Iene, ma su un intero modo di intendere e praticare il giornalismo televisivo e sul suo impatto sulla cultura politica dell'Italia. Roberto Zaccaria è l'uomo che fingendosi ragazza, aveva intrecciato una lunga storia d'amore virtuale con un giovane, Daniele, 24 anni, conclusasi poco più di un anno fa con il suicidio del ragazzo. Non è chiaro se a determinare la tragedia sia stata la scoperta del raggiro oppure le pressioni emotive alle quali Zaccaria esponeva quella che era a tutti gli effetti la sua vittima. Ma il particolare è qui poco importante anche se non secondario per mettere a fuoco le responsabilità, comunque indiscutibili e pesanti, dell'uomo. Ma per quanto riguarda il ruolo della tv e del giornalismo televisivo, conta soprattutto quel che è successo dopo il suicidio di Daniele. La famiglia, passando al vaglio il cellulare del suicida, scopre la relazione virtuale, si rende conto di quanto sia stata determinante nel provocare la tragedia, individua il falsario e lo denuncia. La procura però non ravvisa gli estremi del reato di procurata morte, per il quale chiede l'archiviazione, ma solo quelli di furto d'identità, passibile di una multa di 850 euro. Insoddisfatta la famiglia si rivolge quindi alle Iene, che procedono come d'abitudine: con una plateale messa alla gogna pubblica. L'uomo viene inseguito in pieno giorno per le strade di Forlimpopoli, mentre porta in carrozzina la madre paralitica. Viene assediato, accusato a voce altissima di aver provocato la morte di un ragazzo, braccato sin sulla porta di casa, filmato quando perde la testa, cerca di fuggire, lancia la carrozzina contro il persecutore. Il tutto viene mandato in onda limitandosi a offuscare il volto dell'uomo ma in modo tale da renderlo perfettamente riconoscibile e non ce ne sarebbe neppure stato bisogno essendo l'intera scena svoltasi in pubblico e in piena luce. Naturalmente si può discutere sulla decisione della procura, si può ritenere ingiusta la richiesta d'archiviazione. È del tutto lecito e comprensibile che la famiglia intendesse battere tutte le vie legali per ottenere una risposta negativa a quella richiesta. Tra queste vie, però, non dovrebbe essere contemplato il rivolgersi alla televisione come a una sorta di tribunale d'ultima istanza, una specie di Super Corte di Cassazione invocata per influenzare la scelta della magistratura suggestionando e incitando l'opinione pubblica. Ma se ai familiari di Daniele è venuta in mente questa strada, inimmaginabile in uno Stato di diritto, è perché si tratta ormai della norma. Innumerevoli programmi non solo indagano, come è compito e diritto dei giornalisti fare, ma giudicano, si schierano a favore dell'innocenza o molto più spesso della colpa, inevitabilmente e persino al di là della loro volontà influenza o rischiano fortemente di influenzare le indagini propriamente dette e le scelte della magistratura. La trasmissione che ha spinto Zaccaria al suicidio però è andata oltre il giudizio dell'Alta Corte Televisiva, passando direttamente a emettere ed eseguire seduta stante la sentenza. Esporre una persona a quel tipo di gogna, in pubblico e rendendolo riconoscibile, equivaleva infatti, soprattutto in un paese come Forlimpopoli, a una condanna eterna alla gogna e alla vergogna, era un invito alla messa al bando. Del resto anche nei confronti di Daniele Le Iene non ci erano andate leggere: non si erano limitate a raccontare la già tragica e tristissima vicenda, ma avevano forzato i toni spiattellando dettagli tanto intimi quanto assolutamente inutili ai fini dell'indagine e della denuncia. Preziosi però ai fini della spettacolarizzazione della tragedia, proprio come la finalità dello spietato stalking contro Zaccaria era lo spettacolo, non la ricerca della verità o della giustizia. È piuttosto abietto invocare la libertà di stampa per reclamare la libertà di fare spettacolo e audience su tragedie già accadute correndo il rischio di provocarne altre, come in questo caso. Ma anche da questo punto di vista le punte estreme raggiunte dai programmi più sfacciatamente trash, o “spazzatura” per dirlo in italiano, non sarebbero possibili senza una tendenza generale che va da tempo in quella direzione e che si maschera da coraggioso giornalismo d'inchiesta. Bisognerebbe avere il coraggio di dire che inseguire un politico indagato con un codazzo di telecamere, braccarlo ponendogli domande assurde e all'apparenza stupide “È colpevole? È davvero corrotto? Si giustifichi!” non è giornalismo. È ricerca spasmodica e sfrenata di spettacolarità, cioè di audience, cioè di guadagno realizzata ricorrendo a un modello sempreverde: quello della gogna e del linciaggio. Il giornalismo stalker non cambia né diventa più accettabile se invece di una persona qualsiasi prende di mira un politico o un personaggio pubblico. Pessimo giornalismo e pessima televisione? Non solo, anche se sarebbe già abbastanza. Il peggio è che la tv e la realtà dalla tv filtrata formano mentalità, danno l'impronta agli approcci politico-culturali. Un giornalismo televisivo, per usare parole forti, di questo genere non si limita ai danni immediati. Fomenta una concezione della politica come giustizia sommaria, anche ma certo non solo ai danni dei politici stessi, “la casta”. Ma esalta anche la fiducia nei politici in grado di adoperare quei metodi spicci. Due tendenze che nell'ultimo decennio hanno sempre più condizionato gli umori dei telespettatori, che per inciso sono anche elettori.