«In Italia manca una riflessione seria sulla natura della pena: dobbiamo continuare a considerarla come restrizione in luogo chiuso e controllato da una polizia specializzata, per un certo numero di anni? Oppure dobbiamo pensare a qualcosa che, fatto salvo il prezzo della responsabilità, riattivi un rapporto tra società e detenuto?». A dirlo è Luciano Violante, ex presidente della Camera ed ex magistrato, che commenta i primi provvedimenti del governo Meloni invitando la società a ragionare sul concetto stesso di carcere. «Non mi sorprende che la destra faccia la destra, ma dobbiamo chiederci se, dall’altra parte, la reazione non debba essere culturalmente adeguata».

Il primo provvedimento di questo governo ha svelato da subito la natura giustizialista dell’esecutivo. Come giudica questa prima mossa, sia in termini di metodo che di merito?

Determinare le priorità è compito del governo e ogni governo lo fa secondo i propri codici ideali. L’opposizione, se non è d’accordo, le critica e propone le sue alternative. Il tema dell’ordine pubblico, in particolare, è proprio di tutte le destre del mondo; in Italia ha individuato, sia con la questione delle ong sia con quella dei rave, il terreno sul quale affermare i propri principi.

Il decreto anti-rave è però vago e per molti costituzionalisti lascia spazio a una possibile pronuncia di illegittimità. È così?

Direi che è stata scritta in fretta, anche perché non punisce i rave, ma l’invasione allo scopo di organizzarli. La norma è scritta un po’ male e senza dubbio il Parlamento interverrà per correggere alcuni aspetti. Per quanto riguarda la pena, è stata fissata per consentire le intercettazioni ed evitare le misure alternative al carcere. Ma la misura pena non può essere uno strumento per definire i mezzi di indagine o assegnare una afflittività ulteriore. Non discuto l’opportunità della norma, anche perché i Paesi vicino al nostro ne hanno di simili, il problema è fare in modo che sia costruita per evitare abusi. Anche stabilendo espressamente che non sono punibili manifestazioni studentesche, sindacali o politiche.

Il rischio sarebbe un uso strumentale della norma?

Sì. Inoltre, nel quadro della tutela dell’ordine pubblico, forse bisogna evitare che continui l’occupazione di un grande stabile centrale a Roma, da parte di Casapound.

Il decreto riguarda anche l'ergastolo ostativo: il Consiglio dei ministri ha ripreso la proposta approvata dalla Camera, proposta che Fratelli d’Italia non aveva votato ritenendola inefficace. Questa nuova versione della norma può superare i dubbi della Consulta? Ed è adeguata ad evitare abusi in senso contrario al fine rieducativo della pena?

Stiamo parlando di misure che, in caso di ergastolo scattano dopo 30 anni. Mi pare che il tempo sia ampiamente sufficiente, forse eccessivo, per valutare il comportamento di una persona. Credo che la civiltà del diritto penale comporti il riallacciamento di un rapporto tra chi ha commesso il delitto e la società. Questo è essenziale affinché una società sia più civile. Io sono contrario all’ergastolo ostativo e credo che la sentenza della Consulta, che ha criticato l’automatismo, sia importante. Questo decreto certamente risponde alle esigenze poste dalla Corte. Qualcuno può obiettare che le previsioni siano ancora troppo rigide, ma stiamo attenti: abbiamo a che fare con personaggi dall’elevata caratura criminale. La cosa importante è, innanzitutto, che si valuti caso per caso. E a quel punto si può anche pensare di ridurre a 20 anni il tempo da scontare in carcere prima di poter presentare la richiesta di accesso ai benefici: mi sembra un tempo sufficiente per stabilire se i rapporti con l’organizzazione criminale di origine siano stati recisi. Ma questa è solo una mia valutazione personale: vedremo cosa dirà il Parlamento.

Nello stesso decreto è stato previsto un rinvio dell’entrata in vigore della riforma Cartabia: pensa che stiano cercando di smantellare la riforma?

Non mi baso su sospetti. Credo che ci fossero senz’altro dei problemi di disciplina transitoria, segnalati da molti giuristi. Ma aggiungerei una cosa: c’è quasi dappertutto un’assoluta impreparazione delle cancellerie ad usare il digitale. Il ministro Nordio conosce questi problemi e spero che applichi la sua attenzione anche all’apparato amministrativo, non solo alla magistratura.

La parte relativa alle sanzioni alternative non poteva essere subito applicata, data anche la situazione disastrosa delle carceri?

La questione radicale, per me, è che cosa dev’essere la pena nel 21esimo secolo. La società di questo secolo ha interesse a riallacciare un rapporto con il reo? Altrimenti il carcere diventa una scuola criminale. È il carcere, per sua logica interna, ad essere deleterio. In tutti i paesi del mondo è un male necessario, perché nessuno ha ancora inventato una soluzione diversa, però bisogna riprendere il tema della pena con molta maggior convinzione.

Fratelli d’Italia lo sta facendo, ma in senso opposto: il deputato Cirielli ha depositato una proposta di legge per modificare l’articolo 27 della Costituzione per «limitare la finalità rieducativa» e «salvaguardare e garantire il concetto di “certezza della pena”».

La destra fa la destra. Non ci dobbiamo stupire. Ma faccio un’altra domanda: dall’altra parte c’è una reazione adeguata? C’è una riflessione seria e penetrante nella società italiana su cosa dev’essere la pena, sulla sua natura, sui suoi effetti? Dobbiamo incolpare chi presenta progetti di legge in cui crede o chi non promuove un’azione culturale diversa su questa questione?

Questo governo, tendenzialmente carcerocentrico, ha un ministro garantista, come Nordio, e tra le sue fila una forza liberale come Forza Italia. C’è un equilibrio tra queste diverse anime o intravede un conflitto, come molti commentatori dicono in queste ore?

Non faccio supposizioni: preferisco guardare i fatti.

Crede che ci sia una responsabilità della sinistra rispetto alla deriva giustizialista di questo Paese?

Alla sinistra si chiede di far tutto, ma non ha la bacchetta magica per risolvere i problemi. È il mondo della cultura in generale a non essersi impegnato. Quello che manca oggi, su questi temi, è un rapporto tra cultura giuridica, politica, avvocatura e magistratura, quattro campi privi di interscambio, se non in pochissime occasioni e incidentalmente. Ma un’integrazione tra questi attori sarebbe necessaria, perché solo da questo intreccio può nascere una riflessione sufficientemente forte nella società italiana per convincere a cambiare indirizzo sul concetto di pena e sulla sua funzione.

Nordio ha definito alcune delle possibili riforme: separazione delle carriere, abolizione o modifica dell’abuso d’ufficio e della legge Severino e inappellabilità delle sentenze di assoluzione. Cosa ne pensa?

Sull’abuso d’ufficio ha ragione il ministro Nordio. Così com’è, è certamente uno strumento inutilmente iugulatorio nei confronti di chi riveste funzioni pubbliche. Per quanto riguarda la separazione delle carriere, ritengo che se il pm ha fatto il giudice - e viceversa - non potrà che far meglio il suo lavoro. Inoltre oggi, con la legge Cartabia, il cambio è limitato ad una sola volta, quindi la situazione non è drammatica. Fare due carriere diverse significa far dipendere il pm dall’esecutivo, altrimenti avremmo migliaia di super poliziotti indipendenti in giro per l’Italia. Il problema è che i pm devono incorporare la cultura della valutazione della prova e i giudici quella della sua acquisizione. Per quanto riguarda la legge Severino, sono d’accordo col fare alcune modifiche. Ci sono state giunte regionali e comunali trascinate nel ludibrio, pagine intere di giornali e poi assoluzioni. Ma nel frattempo dignità, reputazione e maggioranza sono andate perse. Ultimo e scandaloso, il caso del governo regionale della Val d’Aosta. Sull’inappellabilità, infine, farei una distinzione in base al tipo di reato: toglierei l’appello per i reati più lievi. Ma è il concetto stesso di appello che prevede la possibilità di modificare una sentenza: non ne farei un dramma.