«Un Pd in bambola, suonato come un pugile, è un pericolo per Giorgia Meloni perché regala la golden share della controparte politica al M5s di Giuseppe Conte, il quale - dal draghicidio in poi- è tornato a crescere grazie ai “no” a prescindere”. Così ha scritto Marco Zucchetti in un editoriale recente del Giornale della famiglia Berlusconi invitando “tutti”, sin dal titolo, a temere “il coma” in cui si trova il partito di Enrico Letta, messo sui binari di un congresso destinato a concludersi con le primarie solo il 12 marzo, fra quattro mesi e mezzo.

«Un’enormità», ha avvertito inutilmente l’ex presidente del Pd Matteo Orfini in un intervento all’ultima direzione al Nazareno lamentando, fra l’altro, la sottovalutazione del pericolo costituito da un Giuseppe Conte “ipocrita e trasformista”. Che da «punto di riferimento più alto dei progressisti» indicato dall’ex segretario del Pd Nicola Zingaretti è diventato il concorrente di Enrico Letta, e di chi gli succederà, alla guida dell’opposizione. Una gara - direi - nella quale, se la perdesse, il Pd passerebbe dal coma alla morte, dal reparto di terapia intensiva, dove è finito dopo la sconfitta elettorale del 25 settembre scorso, all’obitorio. Altro che «il nuovo Pd» propostosi dal segretario uscente in veste di “garante e arbitro” di tutto il percorso congressuale di “rifondazione”: un segretario liquidato con derisione da Libero come un “beduino vagante all’infinito nel deserto della sinistra”.

Ma il pericolo avvertito dal Giornale per il coma del Pd davvero investe soltanto Giorgia Meloni a causa di una “controparte” egemonizzata da Conte nella sua ultima versione di sinistra estrema, o quasi? È troppo malizioso pensare che ancor più della Meloni - certamente consapevole della durezza dello scontro con Conte, durante il cui discorso alla Camera sulla fiducia lei ha dato della “merda” secondo una ricostruzione labiale non smentita - il pericolo minacci Berlusconi? Il quale potrebbe trovarsi ancora più stretto di adesso nel destra- centro che è diventato il suo originario centrodestra se non potesse contare su un Pd dialogante per soluzioni d’emergenza in caso di crisi.

D’altronde, pur avendo inaugurato la stagione del bipolarismo, basata sulla contrapposizione alla sinistra, Berlusconi non ha avuto molte remore a partecipare col Pd a maggioranze chiamate “larghe” o “di solidarietà nazionale”, secondo le circostanze. Lo fece nell’autunno del 2011 cedendo Palazzo Chigi a Mario Monti e appoggiandone un governo tecnico osteggiato invece dalla Lega ancora di Umberto Bossi. Lo rifece nel 2013 col primo e unico governo di Enrico Letta, da lui preferito a un Matteo Renzi che l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano era pronto già a chiamare a Palazzo Chigi se ne avesse avuto la designazione da una maggioranza riconosciutasi nella inopportunità di chiudere la legislatura appena cominciata. Il povero Pier Luigi Bersani aveva ingenuamente creduto di poter formare con l’aiuto dei grillini un governo definito «di minoranza e combattimento».

Nel 2018 di fronte alla vittoria elettorale imprevista delle 5 Stelle Berlusconi concesse praticamente alla Lega, nel frattempo passata sotto la guida di un Matteo Salvini che lo aveva peraltro sorpassato nelle urne, la licenza di un governo con Conte pur di evitare le elezioni anticipate, anche allora. E quando, nel 2021, nel corso della stessa legislatura, fallì anche il secondo governo di Giuseppe Conte consentito a sorpresa dal Pd, Berlusconi non esitò un istante a aderire al governo e alla maggioranza “anomala” voluta dal presidente della Repubblica, nella impossibilità o indisponibilità alle elezioni anticipate in periodo di pandemia acuta, mandando Mario Draghi a Palazzo Chigi. Allora Berlusconi si trascinò appresso la Lega nella maggioranza col Pd. Ne vollero rimanere fuori - o ne furono esclusi per un veto dei grillini, secondo alcune fonti - i Fratelli d’Italia della Meloni, non so se più fortunati o astuti nella conduzione di un’opposizione destinata a consegnare loro il centrodestra e, insieme, il primo governo peraltro a conduzione femminile nella storia d’Italia: un vero e proprio bingo.

Di questo bingo della destra Berlusconi, non a caso distintosi per imprevedibilità e nervosismo nei primi passi della nuova legislatura, e ancora tentato - parlandone con Bruno Vespa - da distinzioni sul versante della guerra in Ucraina, sembra francamente più un prigioniero, per quanto applaudito come un patriarca dal governo Meloni in piedi al Senato, che un beneficiario. E ancor più lo sarebbe se il Pd uscisse anche dalla scena dell’opposizione per dissolversi nel vuoto, o accettare la subordinazione ai grillini. La cui avventura, del resto, era cominciata nel 2009 con la tentata iscrizione dello stesso Grillo al Pd, in Sardegna, per scalarne la segreteria nazionale lasciata da Walter Veltroni. Al governo, in quei tempi, c’era ancora Berlusconi col suo centrodestra, per quanto già insidiato dalle ambizioni di Gianfranco Fini.