di Vincenzo Roppo

Garantismo: quanto se ne parla. Ne parlano filosofi (in primis Luigi Ferrajoli, massimo costruttore della categoria), ne parlano giuristi, ne parlano giornalisti. Ne parlano politologi, politici e politicanti. L’uomo della strada non ne parla spesso: ma anche senza usare la parola è coinvolto fino al collo nelle vicende e nei problemi che la parola indica. E chi usa la parola – non solo fra gli uomini della strada, anche fra i savants o pretesi tali – non sempre sa bene di cosa parla. Perché di garantismo si parla spesso in modo serio, ma talora anche in modo cialtrone. Ecco il senso di questo libro: un modesto contributo per restituire al discorso pubblico una nozione di garantismo più consapevole, meno lacunosa confusa unilaterale (ma oso aggiungere meno truffaldina) di quella che oggi lo frequenta. Ovvero, un piccolo esercizio di ecologia del linguaggio e dei concetti. Ma anche, necessariamente, un piccolo esercizio di storia: perché nell’arco della sua pur breve vita il garantismo ha corso complicate «avventure» – trionfi e disgrazie, splendori e miserie – che vanno conosciute se si vuole cogliere di cosa parliamo quando parliamo di garantismo. I possibili significati del termine sono più d’uno, e diversi fra loro. Domina in posizione eminente il garantismo penale, che è il garantismo per antonomasia, il padre di tutti i garantismi: lo scudo dell’individuo contro il potere punitivo dello Stato, che Montesquieu chiama «terribile». Ma il termine corre anche in altri campi semantici. A parte il garantismo sociale (che reclama azioni pubbliche per promuovere il benessere delle persone e ridurre le disuguaglianze della società), c’è soprattutto un garantismo istituzionale: quello che fa tutt’uno col rispetto dei giusti confini ed equilibri fra i poteri statali, ed è offeso quando un potere invade il territorio di un altro – in definitiva una questione di buon funzionamento della democrazia. Basta questo per capire che sulla scena del garantismo il posto centrale è occupato dalla magistratura. Protagonista assoluta del garantismo penale, perché sono magistrati – pubblici ministeri e giudici – quelli che manovrano la macchina dei delitti e delle pene. Ma protagonista anche del garantismo istituzionale, tutte le volte (non poche) che si crea qualche interferenza fra l’azione giudiziaria e l’azione del governo, del parlamento, dei partiti: per dirla spiccia, tutte le volte che vengono in gioco i rapporti fra magistratura e politica, dove i rapporti non di rado sono scontri. Se si cerca nella storia dell’Italia repubblicana una fase in cui l’azione della magistratura si espone in modo esemplare al doppio scrutinio del garantismo penale e del garantismo istituzionale, questa è la fase di Tangentopoli e Mani pulite. Inevitabile allora ripercorrere questa fase seguendo la bussola di due domande: Mani pulite viola il garantismo penale, calpestando i diritti degli imputati sotto processo per corruzione? Viola il garantismo istituzionale, operando come la forza d’urto che dissolve la prima Repubblica e così invade pesantemente il campo della politica? In altre parole: a Mani pulite può rimproverarsi un peccato di «giustizialismo» (come per radicata convenzione si chiama il vizio antitetico alla virtù del garantismo)? Con Mani pulite la magistratura gioca senza dubbio un ruolo protagonista, che impatta su importanti dimensioni del garantismo. Ma non è l’unico caso in cui il protagonismo della magistratura è messo in stato d’accusa davanti al tribunale dei principi garantisti. Anche qui però c’è il rischio di fare d’ogni erba un fascio, sicché conviene esercitarsi nell’arte della distinzione: perché una cosa è il protagonismo dei pretori d’assalto negli anni sessanta/settanta del Novecento, altra cosa quello dei magistrati impegnati nei processi di mafia e di terrorismo (e talora vittime dirette di queste forme di criminalità). Una cosa il protagonismo dei magistrati autori di arresti eccellenti quanto pretestuosi, altra cosa quello dello scontro frontale con esponenti massimi della politica. Per la sua rilevanza, quest’ultimo aspetto merita un discorso a parte. Ed è un discorso che rinvia a nomi e cognomi della storia politica italiana: Bettino Craxi e Silvio Berlusconi. Impegnati – soprattutto il secondo – in conflitti con la magistratura di lunga durata e di singolare asprezza, in relazione a vicende giudiziarie che variamente li toccano. Anche qui il garantismo c’entra eccome: l’accusa di giustizialismo anti-garantista è infatti la principale arma polemica usata contro quelle iniziative giudiziarie. Se l’accusa abbia fondamento o meno (e possa magari ritorcersi contro chi la muove) è questione che merita di essere esplorata, e aiuta a mettere a fuoco cosa sia coerente e cosa contrario a una bene intesa idea di garantismo. Avventure molto impegnative sono quelle che il garantismo vive nelle situazioni di emergenza: quando per difendere la società da nemici che la minacciano sembrano indispensabili azioni di lotta molto energiche, anche a costo di sacrificare diritti e garanzie degli individui. Vale per l’emergenza mafia: dove il dilemma fra contrasto efficace alla criminalità mafiosa e garanzie penali da riconoscere perfino agli uomini di Cosa nostra s’incarna emblematicamente nella figura di Leonardo Sciascia. Vale per l’emergenza terrorismo (anni settanta del Novecento): e qui il confronto sul garantismo trova un luogo privilegiato nelle polemiche che si accendono intorno al processo padovano del 7 aprile, e all’interno delle quali s’inscrive un teso «duello a sinistra» fra Pci e Psi. Vale infine per l’emergenza Covid-19, straordinario campo in cui si aggrovigliano molti nodi cruciali del garantismo: dal conflitto fra libertà personali e restrizioni in nome della salute pubblica (lockdown, green pass, obblighi vaccinali) all’attivismo frenetico di qualche pm ansioso di esorcizzare il demone della pandemia con esorbitanti iniziative penali per la ricerca di un colpevole ad ogni costo. Ma il garantismo corre avventure pericolose anche fuori dalle emergenze, in situazioni di ordinaria fisiologia della vita sociale. Qui incontra oggi un nemico insidioso: il populismo penale, proiezione e specificazione di quel populismo politico che nel nostro tempo marca la sua presenza nociva sulla scena nazionale (ma anche fuori d’Italia). Si deve in larga misura al populismo penale – praticato da significativi settori del sistema politico come facile mezzo di conquista del consenso popolare – se il nostro ordinamento dei delitti e delle pene segue da tempo una linea di sviluppo poco compatibile coi principi del garantismo. E la deriva anti-garantista si manifesta con fenomeni e problemi che negli anni più recenti affollano il discorso pubblico e alimentano la polemica politica quotidiana. Come dimenticare che sul tema garantista della prescrizione penale si rischia agli inizi del 2020, per iniziativa di un indiavolato Matteo Renzi, una crisi della maggioranza e del governo di recentissima formazione, scongiurata soltanto dall’irrompere della pandemia? Il garantismo rivela così una marcatissima valenza politica, proponendosi come segno identitario di partiti e movimenti che in suo nome si contrappongono ad altri partiti e movimenti, identificati sotto l’antagonista bandiera del giustizialismo. Esplorare quali forze politiche sono davvero garantiste e quali no – o meglio, in che senso e in che misura lo sono o non lo sono – introduce una mappatura che per essere realistica deve risultare più complessa e frastagliata di quanto abitualmente si immagina. Nella scena della cosa pubblica c’è la politica che fa le leggi, e c’è la magistratura che le applica. La combinazione dei due fattori genera il sistema della giustizia penale: che da tempo, come si è detto, appare seriamente in debito col garantismo. Si apre allora un campo d’indagine e di valutazione molto rilevante: l’attuale assetto ipo-garantista della nostra giustizia penale è colpa della politica o della magistratura? O di entrambe? E in quale misura rispettivamente? Ma al di là di cercare colpe, conviene pensare positivo. Registrando che il nostro sistema conosce sì una complessiva deriva anti-garantista, ma che questa è fronteggiata da importanti sacche di resistenza culturale. E soprattutto apprezzando i segnali positivi che la politica e i suoi prodotti legislativi vanno manifestando, nella fase più recente, in direzione di un recupero di garantismo del nostro ordinamento penale: primo fra tutti la riforma che porta il nome della ministra della giustizia Marta Cartabia. A questi segnali bisogna guardare con fiducia. Ma anche con pazienza: perché il recupero dovrà seguire un itinerario non breve. Il compimento di questo itinerario implica che si sconfiggano i nemici conclamati del garantismo: nella politica, nella giurisdizione, nella cultura, nei sentimenti annidati dentro il corpo sociale. Ma oltre che contrastare i nemici, conviene guardarsi dai falsi amici: quelli che fanno a gran voce professione di garantismo e ne sventolano la bandiera, ma poi lo deformano in declinazioni discutibili e talora impresentabili, o lo tradiscono nei fatti. Smascherare i falsi amici, correggendone eccessi e distorsioni, è una operazione di ecologia del garantismo necessaria per il successo dell’idea: perché non qualunque garantismo, ma solo un garantismo ben temperato può avere il successo che merita. (Dall’introduzione di Garantismo. I nemici, i falsi amici, le avventure)