“1992: nasce il processo mediatico” è il titolo di un dibattito tenuto ieri al Salone della Giustizia. In realtà per Piero Sansonetti, direttore del Riformista, la distorsione del racconto giudiziario è iniziata prima, «ai tempi della lotta armata quanto la politica diede una delega alla magistratura». Del periodo di Tangentopoli ha ricordato: «Allora i giornali lavoravano in maniera unificata - Stampa, Repubblica, Unità, Corriere della Sera, in parte anche il Messaggero.  Non cercavano le notizie ma unificavano le veline. Se non stavi nel Pool eri fuori. Non erano liberissimi giornali allora, non raccontiamoci balle». Tra i relatori anche Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere Penali: «Il processo mediatico consiste nel concentrare l’attenzione e il giudizio dell’opinione pubblica solo sulla fase delle indagini, sull’ipotesi accusatoria. Basta l’iscrizione nel registro degli indagati per mettere all’indice una persona. I giornalisti bramano le carte dell’indagine ma non si fanno vedere durante il dibattimento: questo prodotto non vende».
  Alla domanda sui possibili rimedi del moderatore Gian Marco Chiocci, direttore dell’Andkronos, Caiazza ha concluso: «Non è facile. Occorre ricostruire una idea di fondo, rendendo concreti dei principi, quali quello di non colpevolezza. Tutto ciò impone un impegno intellettuale. Inoltre bisogna contenere il potere della pubblica accusa e contemporaneamente rivalutare socialmente il ruolo del giudice, il vero protagonista della giurisdizione». In collegamento c’era Carlo Renoldi, capo del Dap: «I detenuti oscillano anch’essi tra la rappresentazione di tanti Caino, che hanno compiuto ogni sorta di nefandezze, e al tempo stesso di vittime dello Stato, sottoposte a quotidiane violazioni dei loro diritti fondamentali. Anche qui, bisogna uscire dalle astrazioni. Ogni detenuto è una persona e il suo essere rappresentato come un’entità astratta finisce per negarne l’umanità, così come avviene, singolarmente, anche per le persone che hanno subito un reato, per le quali, l’etichettamento come vittime, finisce per negare l’individualità e l’irripetibilità delle loro storie e delle loro sofferenze». È stata poi la volta di Enzo Carra, politico e giornalista, di cui ricordiamo tutti la sua foto con i ceppi ai polsi mentre veniva condotto in Tribunale a Milano: «Della sentenza oggi non importa niente a nessuno, forse persino all’imputato a meno che non sia costretto ad andare in galera. Nel 1992 mancano i social. Pensate se adesso, nel tempo degli odiatori, volessimo cominciare un ragionamento sulla notizia di indagine che uccide il racconto della sentenza». Tra gli ospiti anche Alessandro Sallusti, direttore di Libero. Ha ricordato come ai tempi di Mani Pulite «c’era una lotta pazzesca tra i giornali a vendere una copia in più; è molto più banale l’origine di tutto».  Le redazioni poi «sono diventate le house organ delle Procure. Io c’ero: al Corriere della Sera l’avviso di garanzia per Berlusconi lo ha dato la Procura di Milano in fotocopia. Lo hanno fatto in un giorno in cui faceva più male a Silvio Berlusconi. Questa superficialità della categoria giornalistica si è saldata col passare dei mesi con quella dei pm. Come mi ha raccontato Palamara, in quegli anni i magistrati si trasformarono da semplici burocrati di Stato a delle vere e proprie star». Queste parole di Sallusti hanno creato letteralmente “disagio”e “imbarazzo” nell’ex pm di Mani Pulite Gherardo Colombo, collegato da remoto: «La Procura non è una persona. Non si possono tutelare le fonti e poi fare una specie di gioco di prestigio: l’affermazione di Sallusti è assolutamente non dimostrabile». E rivolto a Sallusti: «Quello che dice è una cosa molto grave e pesante nei confronti di chi questa cosa non l’ha fatta, ammesso che sia stata fatta. Io mi sento davvero molto in imbarazzo perché mi sento chiamato in causa». E poi ammette: «Quella fuga di notizie ci ha danneggiato enormemente. La mia idea del rispetto della persona è ferma e sicura: le persone devono essere rispettate in sintonia assoluta con l’art. 27 della Costituzione per cui fino a sentenza definitiva non si può essere considerati colpevoli. Ma le persone vanno tutelate anche dopo in base all’art. 3 Cost. L’uscita di quella notizia ha danneggiato le indagini perché ha gettato molto discredito sulla Procura di Milano. Io mi sto arrovellando per capire da dove sia uscita: dalla Procura, dai carabinieri, da chi ha ricevuto invito? Tra i magistrati chi conosceva la notizia? Borrelli, D’Ambrosio, Di Pietro, Davigo, Colombo, Greco. Se Sallusti dice che è stato un magistrato, è tra questi sei ma gli altri cinque sono innocenti».