Non si può raccontare la crisi della giustizia fermandosi all’evoluzione del processo penale. Mi concedo questo spunto critico, partecipando al dibattito aperto sul dubbio dagli interventi di due maestri del diritto, come Giorgio Spangher e Giovanni Fiandaca. Non perché abbia l’ardire o la competenza per mettere in discussione tesi così autorevolmente rappresentate, ma perché voglio approfittare del mio punto di vista metodologicamente «ignorante» per riportare la discussione al rapporto tra il cittadino e la potestà punitiva dello Stato. Sono convinto che il rischio di un’analisi limitata al processo, cioè alle categorie del penale propriamente dette, è quello di sottovalutare il dilagare del punitivismo nella democrazia italiana, in azioni ed effetti che debordano ampiamente dagli argini formali della procedura.

La tesi dei due insigni giuristi è che il processo ha subito una «torsione finalistica» , spostando il suo target dall’accertamento del reato al contrasto del fenomeno criminale, alterandone la sua originaria natura liberale, e offrendosi come braccio armato a una politica mossa da pulsioni securitarie. In nome dell’efficientismo, dell’economicità e della compressione temporale, il risultato del processo ha fatto strame del principio di tipicità legale delle incriminazioni, fagocitando le categorie sostanziali dentro una «processualizzazione» in cui sfuma, fino svanire, il rapporto tra l’accertamento penale e la verità ontologica dei fatti. È specchio di questa distorsione l’eclissi dei «reati che offendono beni afferrabili» a vantaggio di fattispecie centrate su una fenomenologia sociale giudicata moralmente riprovevole, a prescindere dalla sua offensività giuridica.

La seconda conseguenza di questa torsione finalistica è la centralità dell’indagine come strumento esplorativo e pervasivo di tutela sociale, connesso a tre funzioni che la giustizia ha ricevuto in delega dalla politica, e che Giovanni Fiandaca riassume nel «controllo di legalità» a tutto campo sull’attività dei pubblici poteri, nella difesa della democrazia dalle minacce della criminalità e nel rinnovamento e nella moralizzazione della classe dirigente e della società. All’analisi ineccepibile dei due prestigiosi maestri qui sintetizzata, aggiungo solo una considerazione, per così dire, a posteriori: un rito accusatorio incompiuto, insediato in un sistema ordinamentale che rinunci alla separazione delle carriere, e in un sistema magistratuale geneticamente idiosincratico rispetto all’idea di una parità tra accusa e difesa, non può che approdare a una verità processuale che coincida con una verità sfigurata.

Nessun giudizio che cerchi la prova nella dialettica tra le parti può prescindere da una terzietà radicale del giudicante. Che non riguardi solo la sua funzione nel processo, e neanche l’inquadramento nell’ordinamento, ma il rapporto direi sacrale del giudice con la protezione dell’innocente, la sua inattaccabile indifferenza alle domande di giustizia dell’opinione pubblica, la responsabilità di sostenere il senso del limite che il sistema accusatorio porta con sé, e tra questo l’idea che un colpevole possa anche farla franca perché le indagini sono state condotte male.

Ma non è solo il processo propriamente detto la sede di «corruzione» della giustizia, quanto le sue duplicazioni speciali, che si sono riprodotte dentro e fuori i confini del penale, portando a spasso il punitivismo nella democrazia italiana. E tra queste la legislazione antimafia, storica amnesia del dibattito pubblico. È qui che, alle tre deleghe della politica alla magistratura, indicate da Giovanni Fiandaca, se ne aggiunge una quarta, ancora più decisiva: e cioè la funzione di riscatto sociale e di perseguimento di quell’uguaglianza sostanziale che la Costituzione prescrive alla democrazia nel secondo comma dell’articolo 3.

E che la giustizia di prevenzione s’incarica di realizzare, mettendo al centro del suo radar non più i colpevoli, ma i beneficiari di ricchezze ingiuste, che si tratti di mafiosi o di corrotti, o più semplicemente di terzi in qualche modo coinvolti con i primi a prescindere da una loro responsabilità penale, e perfino di ostaggi del ricatto mafioso in quanto pagatori del cosiddetto pizzo. La loro colpa non è verso lo Stato o verso la comunità, e neanche verso le vittime dei reati commessi, spesso neanche provati o ipotizzati, ma prima di tutto verso la storia.

Il fatto che le confische non siano considerate sanzioni, ma piuttosto provvedimenti penali sui generis, con un artificio incomprensibile a qualunque cittadino di buon senso, non ci esime dall’analizzare l’enorme afflittività che scaricano sulla democrazia e la sua giustificazione. Ne fornisce un compendio ideologicamente chiaro la sentenza 24/ 2019 con cui la Consulta riconosce e assegna alla confisca una natura «ripristinatoria».

L’ablazione dei beni costituisce, secondo la Corte, «non già una sanzione, ma piuttosto la naturale conseguenza della loro illecita acquisizione, la quale determina un vizio genetico nella costituzione dello stesso diritto di proprietà in capo a chi ne abbia acquisito la materiale disponibilità, risultando sin troppo ovvio che la funzione sociale della proprietà privata possa essere assolta solo all’indeclinabile condizione che il suo acquisto sia conforme alle regole dell’ordinamento giuridico.

In presenza, insomma, di una ragionevole presunzione che il bene sia stato acquistato attraverso una condotta illecita, il sequestro e la confisca del bene medesimo – dice ancora la Corte - non hanno lo scopo di punire il soggetto per la propria condotta, bensì, più semplicemente, quello di far venir meno il rapporto di fatto del soggetto con il bene, dal momento che tale rapporto si è costituito in maniera non conforme all’ordinamento giuridico, o comunque di far sì che venga neutralizzato quell’arricchimento di cui il soggetto, se non fosse stata compiuta l’attività criminosa presupposta, non potrebbe godere».

Come si può ignorare che la lotta all’arricchimento illecito sia stata ufficialmente codificata dal Giudice delle Leggi come uno degli obiettivi del sistema penale, ancorché sui generis? E come ignorare che questo sistema sui generis prescinda dalle garanzie del processo penale ordinario? Tanto da far sostenere alla Corte di Cassazione (V Sez. Pen. n. 49153/ 2019) che, «in tema di misure di prevenzione, l’assoluzione del proposto dal reato associativo non comporta l’automatica esclusione della pericolosità sociale dello stesso, in quanto, in ragione dell’autonomia del processo di prevenzione rispetto a quello penale, il giudice chiamato ad applicare la misura può avvalersi di un complesso di elementi indiziari, anche attinti dallo stesso processo penale conclusosi con l’assoluzione» .

Significa – ed è norma nella prassi - che il giudice della prevenzione può scremare dal processo penale gli indizi di colpevolezza da quelli di innocenza, prevalenti, che hanno concorso a determinare l’assoluzione, e utilizzare ai fini della decisione sulla confisca solo i primi, cioè i più utili a raggiungere il risultato. E ancora: si può ignorare che «nel giudizio di prevenzione - ( V Sez. Pen. n. 33149/ 2018) - la prova indiretta o indiziaria non deve essere dotata dei caratteri di gravità, precisione e concordanza prescritti dall’articolo 192, né le chiamate in correità o in reità devono essere necessariamente sorrette da riscontri individualizzanti» ? Vuol dire che ai fini delle confische la prova non deve essere grave. Quindi può essere irrilevante? Non deve essere precisa. Quindi può anche essere sfocata, tanto da non identificare con chiarezza i soggetti né i fatti a giustificazione di una pericolosità dei primi? Non deve essere concordante.

Quindi può tranquillamente essere dissonante o in contrapposizione con altri elementi che abbiano portato il giudice penale a confutarla, elementi che in sede di giudizio di prevenzione si può far finta di non vedere? A ulteriore precisazione di ciò di cui si parla, la Corte aggiunge che le accuse dei pentiti non devono essere necessariamente confermate. Anche se la conferma non esiste, o se esiste una precisa smentita, le loro accuse possono essere espunte dal processo penale e impiegate, per quello che servono, nel processo di prevenzione? È accaduto, accade, accadrà ancora in tanti di quei tribunali di territorio dove l’evocazione della mafiosità fa scattare un riflesso pavloviano.

Tutto questo per dire che la «torsione finalistica», di cui parlano Spangher e Fiandaca, arriva al punto di perseguire un obiettivo politico di giustizia sociale attraverso gli scarti del diritto penale, cioè quegli indizi o semplicemente sospetti, illazioni, congetture, pregiudizi che in nessuno procedimento ordinario potrebbero mai diventare prova e che invece bastano a togliere perfino le scarpe a cittadini mai indagati, o piuttosto assolti. Se vogliamo comprendere a pieno che cosa è diventata la giustizia in Italia, dobbiamo partire da qui.