La stoffa del governo Meloni la si scoprirà nel giro di poche settimane: le urgenze che bussano alla porta sono troppe e troppo imperiose per concedere lune di miele. Sono però già evidenti alcuni tratti certamente non trascurabili: l'immagine e le promesse, l'accoglienza e le aspettative. Trattandosi di un governo con molte caratteristiche dirompenti è lecito il confronto con un altro esecutivo altrettanto esplosivo nelle sue premesse, quello gialloverde partorito dalle elezioni politiche del 2018.

Allora le due forze che si alleavano, dopo essersi combattute nelle urne, incarnavano e rappresentavano l'onda che da anni teneva sulle spine l'establishment italiano ed europeo e al quale era stato affibbiata, in mancanza di meglio, la generica definizione di “populismo”. Per la prima volta, in Europa, i populisti erano al potere in uno dei principali Paesi del continente e dell'Unione.

Oggi si tratta non solo del primo governo presieduto da una donna ma anche del primo esecutivo guidato dagli eredi del solo partito estraneo all'arco costituzionale della prima repubblica ma anche della prima maggioranza formatasi prima e non dopo le elezioni dal 2011 e di un governo almeno sulla carta segnato da tratti di radicalità senza precedenti in Italia e in Europa.

Il governo Meloni si presenta però in modo diametralmente opposto a quello guidato allora da Giuseppe Conte, ed è accolto di conseguenza. I gialloverdi esaltavano la brusca e brutale rottura che volevano incarnare. Il presidente del consiglio era un perfetto sconosciuto, molti dei ministri pure. I programmi erano incompatibili con le regole europee, il rapporto con le istituzioni italiane molto teso sin da prima il governo nascesse, con il caso Savona e la richiesta di impeachment per il capo dello Stato.

Quel governo faceva il possibile per imporre l'immagine di un esecutivo rivoluzionario, sia pure democratico e arrivato al potere tramite democratiche elezioni. Varò subito una legge accolta malissimo dall'establishment italiano, pur se già presente in buona parte dell'Europa, come il reddito di cittadinanza e una aborrita dalla Ue, la modifica della riforma Fornero, quota 100.

Nell'Unione fu subito individuato come bestia nera da battere. In Italia fioccarono allarmi contro il ritorno in armi del fascismo se non addirittura del nazismo. Il governo in carica da sabato scorso schiera tutti volti noti, quasi tutti con alle spalle esperienze di governo.

Per i ministeri centrali sono state scelte le figure più affidabili anche all'interno di partiti considerati “sospetti”: Urso e Crosetto da FdI, Giorgetti dalla Lega, Tajani da Fi. Per la postazione centrale di sottosegretario Giorgia Meloni ha richiamato dal volontario esilio dalla politica forse l'esponente più rispettato e avulso da sospetti di neofascismo della vecchia Alleanza nazionale: Alfredo Mantovano. La promessa è quella di non turbare le regole che davvero contano, cioè i conti pubblici.

Il rapporto con le istituzioni è idilliaco. Giorgia, nella formazione del governo, non ha mosso un passo senza consultare rispettosamente il capo dello Stato. Draghi, più che un premier disarcionato, sembra un padre nobile i cui consigli preziosi sono quasi legge e non c'è dubbio che, se Mattarella decidesse di passare anzitempo la mano, la maggioranza di destra lo proporrebbe come presidente unitario di tutti gli italiani e stavolta non ci sarebbero ostacoli di sorta.

I gialloverdi erano, o almeno pretendevano di essere, la frattura. Il governo di Giorgia Meloni promette il ritorno alla normalità: un governo spostato a destra rispetto all'era Berlusconi, certo. Però deciso a non mettere in discussione i fondamentali, le compatibilità e dunque in grado di chiudere la lunga parentesi del panico “populista”.

Un governo dunque più atlantista che europeista, che si ripara sotto l'ombrello Usa- Uk- Polonia più che vicino a Parigi e Berlino, ma pur sempre compiutamente europeo e deciso a non entrare in tensione con i grandi Paesi dell'Europa occidentale, come la premier ha dimostrato subito facendo il possibile per incontrare lei il presidente francese Macron.

Non tutti sono tranquilli e non tutto è chiarito. Il governo italiano resterà a lungo una sorta di sorvegliato speciale e, soprattutto sul fronte dei conti pubblici, dovrà camminare sulle uova. Ma non c'è da fare neppure un paragone con l'ostilità insanabile che circondò da subito l'esperienza gialloverde. Per una leader che, sulla carta, avrebbe dovuto essere anche peggio di quel governo nato nel 2018 è un bel successo.