Quindici anni in mano alla giustizia. È la storia di Vincenzo Nespoli, ex sindaco di Afragola e senatore del Pdl dal 2008 al 2013, arrivato ormai al quinto grado di giudizio. Un dato «purtroppo non infrequente e questo dovrebbe far riflettere, perché 15 anni sono una porzione incredibilmente e assurdamente estesa nella vita di un uomo», dice al Dubbio il professore Vittorio Manes, difensore assieme al collega Vincenzo Maiello di Nespoli.

Mercoledì scorso la Cassazione ha annullato con rinvio per la seconda volta la sentenza di condanna della Corte d’Appello di Napoli nei confronti dell’ex sindaco, accusato di bancarotta in relazione al fallimento di una società di vigilanza di Afragola. Processo da rifare, dunque, mentre la carriera politica di Nespoli, nel frattempo, è naufragata.

La difesa, negli anni, ha argomentato ampiamente le ragioni per le quali l’accusa fosse da ritenere infondata. In primo luogo da un punto di vista sostanziale, partendo dal fatto che la corresponsabilizzazione di Nespoli per il fallimento della società di vigilanza era agganciata alla qualifica di amministratore occulto e di amministratore di fatto di questa società. «Noi abbiamo sostenuto, sulla base di prospettazioni documentate, che non si potesse ritenere Nespoli in questa posizione di fatto - spiega Manes -, perché non vi erano prove di una concreta ingerenza in atti gestori durante l’amministrazione di questa società».

Ed è un dato sempre più frequente che si estendano le responsabilità penali connesse a vicende concorsuali per il tramite di questa figura «molto duttile e melliflua» dell’amministratore di fatto, senza verificare con rigore se esistano i presupposti per un’estensione della qualifica soggettiva. «Qui il problema è che la responsabilità penale, spesso, rischia di travalicare i confini e di esondare in una forma di responsabilità analogica in malam partem - aggiunge -. Ciò vuol dire che si estendono fattispecie penali pensate per soggetti che rivestono qualifiche formali all’interno di un’impresa costituita in forma societaria a soggetti di fatto, senza però avere cura di verificare che questo soggetto abbia effettivamente svolto poteri di gestione continuativi e significativi, come invece impone la figura di amministratore di fatto». Il rischio è dunque di un’estensione del regime di responsabilità penale non rispettosa del primo canone fondante: la responsabilità penale è personale.

Con il primo annullamento, la Cassazione ha ritenuto fondati diversi motivi di ricorso, il primo dei quali aveva a che fare con l’attendibilità di alcune testimonianze, la congruenza complessiva e la tenuta logica della motivazione. Ma soprattutto, i giudici di legittimità hanno censurato il fatto che non siano stati mai presi in considerazione, nelle argomentazioni della decisione di merito, i motivi di doglianza specificamente posti dalla difesa. «Questo è un dato molto importante - aggiunge Manes -, perché ci si chiede sempre di più di formulare gli appelli in chiave specifica, precisa, puntuale e poi, paradossalmente, non si dà alcuna risposta argomentativa alle doglianze della difesa. In questo modo si struttura la decisione giurisprudenziale in chiave monologica e non dialogica e ciò è stato censurato dalla Cassazione, che ha sottolineato il fatto che non sono state considerate e replicate, confutandole, le argomentazioni della difesa. Questo in un processo di parti non può essere tollerato, perché significa, di fatto, trascurare, annichilire, obliterare il necessario confronto dialettico che ci deve essere tra accusa e difesa per raggiungere la verità processuale».

Insomma, il processo si sarebbe potuto chiudere molto prima. E soprattutto, le parole della Cassazione fanno emergere per l’ennesima volta un dato: la funzione difensiva, spesso, non viene rispettata. «Quella giuridica non è una scienza esatta, ma una scienza argomentativa - sottolinea ancora Manes -. È molto apprezzabile che la Cassazione richiami questo approccio dialettico, perché dal punto di vista metodologico indica qual è la strada necessaria per arrivare ad una verità attraverso il giusto processo».

Le conseguenze di un processo penale così lungo sono enormemente gravose, per qualsiasi attività svolta dal singolo. «Un processo di 15 anni confisca il bene più importante per un uomo, la progettualità - continua Manes -. Travolge destini politici, fortune imprenditoriali, rapporti familiari e sociali. È una sorta di ostracizzazione dal consorzio civile, perché di fatto il soggetto vive in una situazione di perenne attesa e molto spesso, soprattutto in vicende che hanno un’evidenza mediatica, gravato da una sorta di presunzione di colpevolezza. Come se fosse un colpevole in attesa di giudizio». Attenzione mediatica che scompare dopo la fase delle indagini, quando i fari sono puntati sugli organi inquirenti, abbandonando i protagonisti delle vicende giudiziarie al loro destino, quando ormai i danni sono devastanti. Ma quale potrebbe essere la soluzione a situazioni del genere? Attenzione per le garanzie che puntellano il giusto processo, in modo da arrivare ad una decisione salda, attentamente motivata, che possa essere rispettosa delle garanzie e del criterio dell’oltre ogni ragionevole dubbio.

«Quanto più ci si sforza di seguire quell’itinerario di razionalità che le garanzie scolpiscono, tanto più quella decisione avrà tenuta logica e capacità di reggere nei diversi gradi di giudizio», aggiunge Manes. Che per il futuro, per evitare storture del genere, ricorda l’importanza di evitare imputazioni azzardate, non serie, puramente esplorative e consegnate ad un dibattimento che arriva dopo anni. «Bisognerebbe adottare un approccio molto rigoroso già nel selezionare le notizie di reato effettivamente meritevoli di essere portate avanti e suscettibili, alla luce dei criteri di prova che il codice impone, di raggiungere una solida affermazione di responsabilità - conclude -. Del resto, la riforma Cartabia, da questo punto di vista, qualche sforzo lo fa, se pensiamo che si chiede di archiviare le notizie di reato per le quali il pubblico ministero non sia in grado di formulare una previsione di condanna, così come al gup si chiede di pronunciare il non luogo a procedere qualora non si senta in grado di ipotizzare come verosimile e probabile la condanna nel futuro dibattimento».