Era agli arresti domiciliari. E come per tutti gli indagati sottoposti a questo tipo di misura cautelare, la dialettica tra difesa e giudice riguarda innanzitutto le autorizzazioni, le eccezioni ammissibili alla condizione di recluso. Ebbene, il magistrato ha, come può avvenire, rigettato le istanze proposte dalla difesa. Ma nel farlo, ha inserito un inciso: non si possono concedere le autorizzazioni richieste altrimenti verrebbe compromesso “il contenuto afflittivo della misura”.

«Niente autorizzazioni, o i domiciliari non sono abbastanza afflittivi»

Contenuto “afflittivo”? E che c’entra? A chiederselo, in un documento come sempre di magistrale fattura, è il direttivo della Camera penale di Milano. Che ha ricevuto la segnalazione dal collega difensore di quell’indagato, e ha opportunamente deciso di rendere pubblica la strana vicenda, che denota evidentemente confusione attorno alla ratio delle misure cautelari. Che non devono essere “afflittive” ma appunto solo cautelari, cioè preventive. Devono prevenire un pericolo: di fuga e soprattutto di inquinamento delle prove o addirittura reiterazione del reato. Non sono concepite, le misure cautelari, per anticipare alcuna pena, che fino a prova contraria, può essere inflitta solo al termine dell’accertamento, del processo. Anche chi è messo in carcere a scopo cautelare, o per lo stesso motivo sconta i domiciliari a casa, è presunto innocente. O quanto meno, per aderire alla lettera della Costituzione, è presunto non colpevole. Chiaro. Ma il linguaggio usato dal giudice milanese dice altro. E per questo, due giorni fa, la Camera penale del capoluogo lombardo, nel rendere nota la vicenda con il proprio documento, ne ha anche trasmesso copia ai vertici degli uffici giudiziari milanesi, «perché all’interno della nostra casa, il palazzo di giustizia di Milano, dobbiamo essere tutti convinti che le misure cautelari non devono avere natura afflittiva». E invece sembra non essere così per tutti, persino tra gli addetti ai lavori. Tra gli stessi magistrati. «Sarà stata la penna che è andata oltre il pensiero di chi ha redatto l’ordinanza? Può darsi», scrive la Camera penale presieduta da Andrea Soliani. Ma dall’esterno, senza voler entrare nel dettaglio dei protagonisti, giacché la vicenda è esemplare a prescindere, viene invece proprio il sospetto che, intanto, fra molti giudici vi sia un’idea della pena come strumento essenzialmente afflittivo, con marginale riguardo alla funzione rieducativa e risocializzante, che viceversa la Costituzione prevede. Oltretutto l’afflittività, da cui certo la pena non può essere immune, deve appunto riguardare le sanzioni comminate come corrispettivo di un reato, non le misure cautelari. Rispetto alle quali dovrebbe valere la già citata presunzione di non colpevolezza. Che fatica evidentemente a farsi strada proprio tra i magistrati, cioè tra coloro che le pene sono titolati a infliggere.

I timori dei penalisti

Tutte obiezioni che il documento della Camera penale di Milano espone perfettamente, persino con notevole tatto, senza infierire oltre su quello viene prospettato anche come uno svarione involontario. Ma intanto, «certi accadimenti non possono passare inosservati», premette il documento. «Anche, e forse proprio, se si ritiene che siano tanto assurdi da non poter entrare in alcun modo nella logica delle cose». E quindi: «Ci è capitato di leggere un provvedimento dell’Autorità Giudiziaria milanese, contenente una considerazione talmente stonata da sorprendere qualsiasi lettore. In una vicenda in cui si dibatteva su alcune autorizzazioni da concedere ad una persona sottoposta alla misura cautelare degli arresti domiciliari, l’Autorità Giudiziaria ha rigettato un’istanza dell’interessato, evidenziando il pericolo di vanificare “il contenuto afflittivo della misura”. Il contenuto afflittivo della misura cautelare degli arresti domiciliari». E subito dopo, come dopo aver preso una pausa necessaria anche affinché il lettore abbia chiaro davanti a sé il paradosso in questione, il direttivo della Camera penale di Milano fa notare: «La misura cautelare è una misura coercitiva con la quale un indagato viene privato della propria libertà, nonostante non sia stato ancora riconosciuto colpevole di alcun reato. È un istituto di natura provvisoria, teso ad evitare che il trascorrere del tempo possa provocare un pericolo per l’accertamento del reato, per l’esecuzione di una ipotetica futura sentenza ovvero possa determinare l’aggravamento delle conseguenze del reato ipotizzato dalla pubblica accusa o l’agevolazione di altri reati». Fino al pro memoria evidentemente necessario: «Le misure cautelari non hanno la funzione di anticipazione dell’esecuzione della pena, poiché il nostro ordinamento si fonda, anche per chi ritiene di non darci troppo caso, sulla presunzione di non colpevolezza prevista nella Costituzione». E ancora, ricorda la Camera penale presieduta da Soliani, «la custodia cautelare (che non merita di essere chiamata carcerazione preventiva, locuzione magari capace di portare con sé qualche fraintendimento) non deve avere alcuna natura afflittiva: non serve per creare afflizioni, ma solo per evitare pericoli (peraltro tramite l’adozione del minor livello di afflizione possibile)». Ma appunto, «fa un effetto strano dover ribadire concetti che credevamo essere così ovvi, quantomeno tra addetti ai lavori. Le parole che abbiamo letto in quel provvedimento, invece, ci terrorizzano per quanto sono stonate e fuori luogo». Fino all’elegante ipotesi giustificatoria: «Sarà stata la penna che è andata oltre il pensiero di chi ha redatto l’ordinanza? Può darsi. Vogliamo anche convincerci che sia così, perché altrimenti vi sarebbe un approccio al tema delle misure cautelari culturalmente del tutto inadeguato. Dobbiamo, tuttavia, essere certi che il nostro pensiero sia da tutti condiviso, ragione per cui abbiamo deciso di scrivere questo semplice documento, che trasmetteremo ai vertici degli uffici dell’Autorità Giudiziaria milanese».Perché tutti, appunto, «devono essere convinti della natura non afflittiva delle misure cautelari. Perché ce lo dice la Costituzione, che peraltro, va ricordato, nemmeno menziona la funzione afflittiva delle pene, ovvero di quelle statuizioni che arrivano solo dopo che sia completato l’iter dell’accertamento giudiziale e si sia giunti ad una sentenza definitiva di condanna». Un pro memoria utile e un caso rivelatore, che forse ci dice qualcosa di più sulle tante ironiche chiose circolate nei mesi scorsi fra i magistrati davanti alle nuove norme sulla presunzione d’innocenza. Ne abbiamo lette di ordinanze fac simile in cui si scherzava sull’eccesso di “presunzioni” da puntualizzare negli atti giudiziari. Ma forse, il “vincolo” di quel decreto che a qualcuno sembra ingabbiare anche la libertà espositiva del magistrato, è piuttosto un espediente per rimettere tutti, giudici e non solo, davanti a una realtà che, come dicono appunto i penalisti milanesi, è scolpita in Costituzione, ma che non tutti vogliono vedere.