Caro Direttore, Mi sono accorto che è ricominciata la scuola perché, mentre vado in udienza, vedo i ragazzi che entrano al liceo. Così mi è venuto in mente di raccontarLe una storia del secolo scorso, ma ancora attuale, purtroppo.

Verso la fine degli anni 70, in un clima più da cupio dissolvi che rivoluzionario (chi conosce la differenza tra ‘ 77 e ‘ 68 mi capisce), mi sono iscritto al liceo classico. Non fu propriamente una scelta. Venivo da una famiglia che, sbagliando, credeva che il classico fosse l’unico liceo esistente al mondo e, per non scontentarli ( nonché perché intuivo che, come avremmo cantato qualche anno più tardi, “la matematica non sarà mai il mio mestiere”), passai cinque anni tra occupazioni, poche lezioni di ginnastica in cortile e una serie infinita di versioni di latino su argomenti assurdi che ti chiedevi perché stessi perdendo tempo a tradurre autori di cui in futuro ti saresti vagamente ricordato il nome solo se, per caso, avessi sbagliato strada sulle pendici di Monte Mario (tipo: “Via Aulo Gellio, chi cazzo era Aulo Gellio?”).

La cosa più formativa che ricordo era scritta sulla porta del bagno dei maschi: “a me nun me decide nessuno, nemmeno te!!!”. Oggi, facendo l’avvocato, quella frase mi torna spesso in mente quando sono in aula e mi dispiace che l’autore sia rimasto sconosciuto perché un tale livello di consapevolezza, in età adolescenziale, sarebbe stato meritevole dei più alti riconoscimenti. Non ricordo con piacere nessuno dei miei professori, tranne uno di greco che aveva scritto un’antologia delle storie d’amore dell’Odissea, sulla quale studiavamo. Dovrei pure averla conservata da qualche parte, se è sopravvissuta ai troppi traslochi. Aveva passione per quello che insegnava, mi sembrava l’unico. Del liceo mi ricordo anche gli amici e le risate, ma c’entra poco con questo racconto. Magari ne parleremo un’altra volta. Comunque, dopo cinque anni, mi trovai di fronte alla prima vera scelta della mia vita.

Passata l’estate più lunga e divertente, viaggiando verso Capo Nord mentre l’Italia stava vincendo il Mondiale in Spagna, mi sono iscritto a ingegneria per colpa del mito di mio nonno. Un ingegnere che lavorava con Nervi. Tutti sanno chi è Nervi, nessuno conosce mio nonno: questo avrebbe dovuto farmi intuire che stavo facendo una cazzata, ma ero troppo giovane per capire certe sfumature. Più precisamente era lo strutturista di Nervi, insomma un matematico che faceva i calcoli del cemento armato quando non c’erano ancora i computer. Pare avesse fatto anche quelli della volta della stazione Termini. E, se è vero, li ha pure azzeccati, visto che la stazione sta ancora lì e sono passati quasi 80 anni: una cosa solida, mica come i miei ricorsi al Tar.

Comunque, un po’ per questo e un po’ perché all’epoca (come oggi) si tramandava la leggenda per cui tutti quelli che si laureavano in ingegneria trovavano subito lavoro, mi iscrissi a ingegneria. Durò poco: a Settembre ogni mattina verso le 8 arrivavo a via Scarpa, in un’aula prefabbricata (che, poi, si può insegnare ingegneria in un prefabbricato?) insieme ad altre 400 matricole, allora quasi tutti maschi. Entrava il professore, diceva buongiorno ragazzi, si voltava verso la lavagna, scriveva e parlava solo di numeri; dopo circa tre quarti d’ora salutava, arrivederci ragazzi. Io capivo solo buongiorno ed arrivederci, tutto quello che diceva in mezzo era, per me, oscuro.

Dopo un mese e mezzo in cui ho seriamente pensato di avere gravi problemi cognitivi, verso la fine di Ottobre mi sono trasferito a Legge, più che altro per non perdere l’anno. A parte i primi sei mesi - in cui per rendermi conto di dove fossi finito e crearmi un minimo “network sociale”, ho provato l’esperienza dell’aula magna di Giurisprudenza (1500 persone stipate ad “ascoltare” un professore lontanissimo che gracchiava frasi indecifrabili in un microfono mezzo rotto) - non ho mai frequentato: avevo capito che, se mi volevo laureare, era più utile stare a casa a studiare che seguire “lezioni” in cui i devoti assistenti del luminare assente ripetevano pedissequamente il manuale scritto, a volte nemmeno così bene, dal Vate, titolare di cattedra e, soprattutto, dei loro destini accademici. Tanto valeva che me lo leggessi da solo. In quattro anni non mi hanno mai fatto vedere un contratto, una sentenza, un atto di citazione.

In compenso avevo imparato norme di dettaglio sulle società in accomandita semplice o sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo che avrei dimenticato non appena superato l’esame ( al netto della circostanza che in trent’anni saranno state modificate almeno una decina di volte, alla faccia del Paese che non fa le riforme: ne fa troppe sbagliate, piuttosto). Ma nessuno, in quegli anni, aveva perso un minuto a spiegarmi a cosa servisse il diritto o, perlomeno, quel singolo istituto su cui “il tempo mio primo si spendea”, e neanche a raccontarmi cosa facesse davvero un avvocato, un magistrato o un notaio. Per essere onesti, c’è stata, come al liceo col greco, un’unica eccezione: Federico Caffè ( che non insegnava a Giurisprudenza, ma si poteva seguire Politica Economica, come esame complementare, a Economia).

In una piccola stanza radunava 10/ 15 alunni e, per spiegare la differenza tra Keynes e von Hayek, ti faceva simulare la “scelta tragica” di un medico che deve decidere a chi trapiantare il cuore di un donatore tra i tre pazienti che di quell’intervento hanno immediato bisogno per non morire. Non ho fatto ( nemmeno lontanamente) la carriera di Mario Draghi, ma non mi stupisce che sia uscito ( anche) da quella scuola. Laureato e assolti gli obblighi di leva, mi ritrovai indeciso a tutto. Sfruttando una conoscenza di mio padre cominciai come praticante in uno studio legale. Fui fortunato: il dominus aveva un disperato bisogno di aiuto. Pertanto mi fece lavorare ai limiti dello sfruttamento. Non era molto simpatico: le segretarie lo avevano soprannominato “nano ghiacciato” (un piccolo aperitivo anni 80), alludendo da un lato alla scarsa statura e dall’altro all’altrettanto carente empatia.

Insomma non aveva un innato approccio pedagogico, ma potevo rubare con gli occhi perché era bravissimo. In quello studio ho capito cosa volessi fare da grande perché ho visto che fa un avvocato, in cosa consiste davvero il suo lavoro. Gli avvocati scelgono le parole. Gli avvocati sono dei traduttori. Ascoltano, anzi assorbono il problema di una persona e lo traducono in una risposta giuridica. Forse è una visione alta, elitaria della professione: la traduzione del mondo reale in un sistema di pensiero. Ma, per un ragazzo di ventiquattro anni, è stato entusiasmante capire che un avvocato deve misurarsi con la natura ontologica del linguaggio. Perché le parole sono importanti. Perché il pensiero si struttura come il linguaggio.

Questa cosa l’ho imparata lavorando in uno studio legale di Prati tra le 10 e le 12 ore al giorno, cercando di risolvere i problemi dei clienti più o meno onesti che mi venivano affidati. Non me l’ha insegnato il liceo classico, che di parole dovrebbe nutrirti, tantomeno l’Università, che ti dovrebbe preparare alla professione.

Nessuno si era preoccupato di “spiegarmi” niente fino a quel momento. Nella mia esperienza, forse sfortunata, gli alunni erano l’ultima preoccupazione di professori e istituzioni. Solo lavorando il mio percorso aveva cominciato ad avere un senso. Per carità, Direttore, gliel’ho già detto: è una storia del secolo scorso. Ma, parlando con i praticanti del mio studio, mi sembra che le cose non siano tanto cambiate. Arrivano ancora da noi, dopo cinque anni di studi, che non solo non hanno mai visto un’aula di Tribunale, ma nemmeno un atto giudiziario.

Cosi - quando vedo i ragazzi che entrano a scuola la mattina, correndo mentre corro con lo scooter in udienza sui sampietrini bagnati di Via Giulia, quando penso a quelli che stanno decidendo quale facoltà scegliere, guardando i video promozionali delle varie Università su You Tube o seguendo corsi farlocchi di (dis) orientamento -, mi torna in mente la porta del bagno del mio liceo. Tranquilli, anche se non capite la direzione della strada che state percorrendo e pensate di perdere il senso del cammino, ricordatevi sempre che “a voi nun ve decide nessuno!!” Con i più cordiali saluti. Andrea Armati.