Da un lato paura dei tentativi di distruzione, dall’altro terrore della cannibalizzazione. La sindrome dell’assedio rischia di risucchiare il Partito democratico, in crisi di identità e privo di certezze dopo la batosta del 25 settembre. I dem, ormai, temono di far la fine dei socialisti francesi: svuotati a “destra” da Macron e a sinistra da Mélenchon. Che in salsa all’amatriciana assumono i connotati di Carlo Calenda (e Matteo Renzi) da un lato e Giuseppe Conte dall’altro. E pensare che, a differenza dei cugini trasalpini evaporati, i democratici italiani restano il maggior partito d’opposizione, il migliore degli “sconfitti” all’ultima tornata elettorale. Ma quel 19 per cento, un risultato migliore di quello ottenuto dal Pd renziano nel 2018, si è trasformato in una Caporetto, soprattutto nella testa dei dirigenti dem, che gonfia il petto degli ex alleati.

Così, se fino a pochi giorni prima della caduta del governo Draghi Enrico Letta e compagni sentivano di avere in mano il pallino del “partitone” guida del centrosinistra - in grado di minacciare i grillini di espulsioni dal campo largo in caso di strappi e di ostentare indifferenza davanti agli schiamazzi di Calenda - ora si sentono accerchiati. I rapporti di forza risultano stravolti e a dettare le condizioni al Nazareno sono i partner considerati fino a poche settimane fa “minori”. E in vista delle prossime Regionali del Lazio e della Lombardia (si dovrebbe votare entro la prossima primavera) Terzo Polo e Movimento 5 Stelle si divertono a giocare al tiro al piccione col vecchio alleato in difficoltà.

Così, se Calenda riparte a razzo con l’aut aut al Partito democratico - «o con noi o con loro», lì dove loro sono i grillini - Conte mostra di non avere alcuna fretta nel definire le eventuali alleanze per le elezioni locali - «al momento non ci sono le condizioni», dicono da via del Campo Marzio. E se in Lombardia i terzopolisti non escludono possibili intese anche con Letizia Moratti, nel Lazio rischia di andare a monte l’unica esperienza di convivenza riuscita tra Pd, M5S e Azione. Con l’uscita di scena di Nicola Zingaretti, infatti, il solo esempio di “campo largo reale” sembra destinato a finire. «Decidete una buona volta chi siete e da che parte state», scriveva ancora ieri il leader terzopolista in una lettera indirizzata ai dem e pubblicata su Repubblica.

«L’opposizione è una grande opportunità per recuperare consensi attraverso la forza delle idee quando sono nette e comprensibili. È un’occasione da non sprecare per ricercare alleanze tattiche e variabili. Non esistono “campi larghi” da costruire. Non perdete tempo ad evocarli. Esiste una sola scelta da compiere: progressisti o populisti», è il consiglio non richiesto che provoca la reazione allarmata e stizzita di buona parte del quartier generale democratico. «Invece di interessarsi continuamente al Pd, Calenda stia tranquillo, si occupi semmai di Renzi ed entrambi si preoccupino di Azione, visto che le scelte che hanno fatto non hanno riportato i risultati sperati», replica piccata la senatrice Valeria Valente. «Tranquillizziamo infatti entrambi: siamo vivi e vegeti, non ci saranno saldature né migrazioni. Il Partito democratico costruirà in Parlamento un’opposizione dura ed efficace alla destra più estrema che abbia governato in Italia», aggiunge Valente, seguita a ruota da vari colleghi. Mentre «Calenda ci dice di andare con lui, Renzi dice che vuole distruggerci», dice ad esempio Enrico Borghi, della segreteria dem. «Ecco, direi che Calenda innanzitutto dovrebbe fare pace in casa propria, mi pare che ci siano sfumature un po’ diverse».

Il Nazareno dunque prova a arroccarsi in difesa per resistere ai presunti assalti senza però esprimere al momento un’identità e una linea riconoscibile. Toccherà al congresso fare chiarezza sulla leadership e sulla natura stessa del partito. Sempre che il partito, questo partito, continuerà a esistere.