Si è aperto ieri a Pescara il Congresso straordinario dell’Unione delle Camere penali che terminerà oggi. Il titolo è: “La giustizia oltre il populismo”. «I penalisti sono stati l’unica opposizione sui temi della giustizia penale dopo il buio che ci avvolto dopo il congresso di Sorrento», ha esordito Massimo Galasso, presidente della Camera penale di Pescara, riferendosi al periodo in cui Alfonso Bonafede ha guidato Via Arenula.

I temi che riecheggiano nella sala del teatro Circus sono separazione delle carriere, inappellabilità delle sentenze di assoluzione, eliminazione dell’obbligatorietà dell’azione penale. C’è ottimismo vista la maggioranza politica. E proprio oggi interverranno oltre a Gian Domenico Caiazza, i politici: Lucia Annibali, Enrico Costa, Francesco Urraro, Anna Rossomando, Andrea Delmastro delle Vedove, Francesco Paolo Sisto. Ma non tutti condividono i desiderata dei penalisti italiani, come la presidente della Corte di Appello dell’Aquila, Fabrizia Ida Francabandera: «Ho letto interviste per cui sarebbe maturo il tempo per portare a termine certe riforme. Temo una nuova stagione di conflitti».

Ma è stato il carcere il tema principale della prima giornata. Un intervento coraggioso, visto il nuovo clima politico e per gli attacchi già subìti, è stato quello del capo del Dap Renoldi: «Ringrazio l’Unione per l’invito. Ho sempre avuto considerazione per la categoria degli avvocati e per la figura dell’avvocato. Come giudice, ho sempre coltivato il dubbio e gli avvocati sono instancabili dispensatori di dubbio». Da qui pieno «riconoscimento per il ruolo sociale ed istituzionale dell’avvocato». Venendo al carcere il capo del Dap ha detto: «Il carcere non è l’unica pena: questo è un dato acquisito dal punto di vista normativo ma non dal punto di vista culturale. Non esistono sistemi che si fondano solo sul carcere. Qualunque politica penale, che pure pone al centro esigenze di tutela della collettività, non può fare a meno di un sistema di sanzioni che deve lasciare spazio a misure diverse dal carcere».

In tal senso, «l’ultima riforma voluta dalla ministra Cartabia ha consegnato al giudice di cognizione più strumenti che gli consentono fin dalla prima fase del processo di modellare la misura sanzionatoria. Questo è un dato che caratterizza tutti gli ordinamenti ed è un dato su cui anche la nuova maggioranza dovrà fare le sue valutazioni: se il carcere resta irrinunciabile, per risolvere le problematiche dell’esecuzione occorre pensare anche alle sue alternative. Occorre evitare di rimanere ostaggi degli slogan e delle semplificazioni».

È intervenuto poi il professore Giovanni Fiandaca, garante detenuti della Sicilia: «Dinanzi a tale scenario politico un interrogativo che non può non incombere è “che vogliamo fare del carcere nell’immediato futuro”? Vogliamo attribuire al carcere la funzione retributiva o vogliamo ritentare di recuperare, di rivitalizzare la funzione rieducativa? Nel dibattito pre elettorale la responsabile giustizia del Pd, Anna Rossomando, ha affermato che dobbiamo restituire al carcere la sua funzione costituzionale, alludendo alla finalità rieducativa. Ma voglio evidenziare che anche nel centrodestra non tutte le posizioni sono state carcerocentriche in senso forte. È vero che il responsabile giustizia di Fratelli d’Italia ha sintetizzato la loro politica criminale con l’espressione “siamo garantisti nel processo e giustizialisti nell’esecuzione penale”. Tuttavia nello stesso centrodestra ho apprezzato quanto detto da Carlo Nordio che vedrei bene come ministro della Giustizia. Egli ha espresso un orientamento vicino a quella concezione della pena costituzionalmente orientata condivisa da Rossomando. L’ex magistrato ha infatti detto: la destra deve rivedere il concetto di pena, il carcere deve essere extrema ratio».

Ha concluso la radicale Rita Bernardini: «Con Cartabia c’è stato un cambiamento. Prima gli interventi erano tendenti a ridurre, adesso ci sono i concorsi. Tuttavia i 50 nuovi direttori riusciranno a malapena a coprire quelli che andranno in pensione, ma ben vengano. In passato quando leggevo le circolari del Dap mi annoiavo per l’estremo linguaggio burocratico. Invece le ultime fatte, in particolare quella su maggiori numeri di telefonate a cui ho collaborato, a leggerle davvero si scopre che non si usa il linguaggio burocratico ma è vestita da riferimenti ai principi fondamentali, che purtroppo sono costantemente negati. Nella realtà di oggi la nostra esecuzione penale ha dei profili di illegalità mostruosi. I 65 suicidi dicono molto del grado di disperazione».