Giorgia Meloni l’altra sera ha tracciato subito la rotta: «Dalle urne è venuta l’indicazione chiara degli italiani per un governo di centrodestra a guida di Fratelli d’Italia, indicazione che sono sicura sarà rispettata». Il centrodestra a tre punte ha quindi vinto, con la maggioranza assoluta alla Camera e al Senato. Ma il risultato è asimmetrico e FdI, pur con il netto vantaggio di circa il 26 per cento, non sfonda al 30 per cento, gli alleati Lega e Forza Italia si fermano rispettivamente intorno al 9 e all’ 8 per cento.

Il governo sarà «coeso» e «durerà cinque anni», assicura la prima donna italiana di fatto candidata premier in pectore. Ma ora Meloni, il cui discorso è stato subito improntato da «responsabilità e unità nazionale», da leader della destra dovrà compiere un’altra “metamorfosi”: quella della leader anche di “centro” o “moderata” nella conduzione politica per far funzionare appieno la macchina del suo governo. Se FI, una volta respinta la sfida del “terzo polo”, che non ce la fa a superare gli azzurri, si candida con Silvio Berlusconi nelle vesti di “regista” alla sua posizione di centro politico, “garante” degli equilibri europei oltre che atlantici, seppur su questi ultimi Meloni abbia già tracciato chiara la rotta, l’alleato da tenere in particolare attenzione è la Lega di Matteo Salvini.

Nonostante sia andato sotto la soglia piscologica del 10 per cento, Salvini, come era prevedibile resta al suo posto. Ma “il capitano”, che salvò la Lega dal baratro del 3- 4 per cento, facendola diventare partito nazionale e prima formazione del centrodestra, nella conferenza stampa in Via Bellerio, dopo la lunga e non facilissima notte elettorale leghista, seppur sempre molto diversa da quella dem del Nazareno, come era prevedibile rilancia ora sull’” agenda” di Pontida, con l’Autonomia, i decreti sicurezza, la rottamazione delle cartelle esattoriali, il superamento della legge Fornero con quota 41. Tutti i punti che, comunque, stanno nel programma comune del centrodestra uniti a quello del presidenzialismo, tema bandiera di FdI ma anche di FI.

Salvini, pur essendo stata la Lega doppiata da Fdi anche in Veneto, si dichiara innanzitutto soddisfatto per avere ora un governo «finalmente dopo tanti anni indicato dal voto degli elettori», ma mette subito in chiaro, come del resto era già stato fatto a Pontida anche da Roberto Calderoli, che la Lega ha perso consensi proprio per aver seguito un’altra agenda: l’agenda Draghi. Osserva, per mettere in risalto la responsabilità presasi dal suo partito, da sempre «con 4 mila amministratori sul territorio» di lotta e di governo, che «Giorgia è stata brava a fare l’opposizione». Può sembrare una piccola frecciata, ma il “capitano” assicura che «il governo di centrodestra durerà almeno cinque anni».

Lui ora riparte dai circa 100 parlamentari leghisti usciti dalle urne, «meglio averne 100 nella maggioranza di governo che anche di più come Enrico Letta all’opposizione». Salvini non rinnega l’ingresso nel governo Draghi, che ha deciso insieme con tutta la Lega e gli imprenditori del Nord, cosa che rimarca per respingere subito al mittente eventuali critiche interne dalla cosiddetta ala governista. Sottolinea che la Lega almeno cosi «ha evitato ulteriori rialzi della pressione fiscale, come quella sull’Imu» e critica, pur senza nominarlo, Mario Draghi ricordandogli che il «nostro ruolo ormai era ridotto a comparse». Quindi, «se avevamo deciso insieme di entrare al governo, la scelta di staccare la spina - rivendica- l’ho presa da solo, perché altrimenti la Lega avrebbe sofferto troppo».

Lascia capire le preferenze della Lega per il ministero dell’Interno. Ma quel ruolo potrebbe essere anche di un altro leghista, magari già sperimentato come l’attuale sottosegretario Nicola Molteni. E Salvini cosa farà? Il segretario della Lega, risponde secco. Ma il punto non è la sua leadership («il mio mandato è in mano ai nostri 20 mila militanti» , dice). E rifilando una stoccata a chi ne aveva già chiesto le dimissioni in alcune dichiarazioni, aggiunge: «Non è in mano a qualche parlamentare non ricandidato». Annuncia il congresso federale tra qualche mese, dopo aver terminato i circa 800 di sezione che restano.

Chiude citando Umberto Bossi, che, nonostante «avesse ottenuto una marea di voti», dopo lo strappo con Berlusconi, preferì poi perdere consensi pur di cercare di ottenere il federalismo tornando con il Cav all’esecutivo. Bossi double face. Quello che ricucì ma strappò pure. Vedremo anche Giorgia ora un po’ “concava e convessa”, come lo fu il Cav?