L’elezione di Silvana Sciarra alla presidenza della Corte Costituzionale apre, fra l’altro, la strada - al di là delle stesse intenzioni dei giudici della Consulta - ad una legislatura in cui potremmo avere una parità di genere al vertice delle istituzioni, o quanto meno avvicinarvici più di quanto sia mai avvenuto nella storia della Repubblica.

Se Giorgia Meloni, risparmiandosi altri errori negli ultimissimi giorni di questa campagna elettorale dopo quelli su cui tornerò più avanti, riuscirà a diventare la prima donna alla guida di un governo in Italia potrà fare coppia almeno per un anno con la presidente Sciarra per una parità di genere ai vertici istituzionali, appunto, escludendo il capo dello Stato e immaginando due uomini alle presidenze delle Camere.

Se poi anche in Parlamento dovesse farcela una donna a tornare alla presidenza del Senato o della Camera, la parità di genere sarebbe completa, includendo anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Avremmo tre donne e tre uomini, tra Quirinale, la dirimpettaia Consulta, Palazzo Chigi e Camera o Senato.

Non oso neppure ipotizzare un 4 a 3 a vantaggio delle donne, non foss’altro per non fare un torto al povero Dario Franceschini, che mi dicono punti a Montecitorio anche in caso di sconfitta del suo Pd alle elezioni scommettendo sul buon gusto del centrodestra di lasciare alle opposizioni almeno una delle presidenze delle Camere.

Almeno sul piano - ripeto - della parità di genere la legislatura potrebbe quindi partire col piede giusto. Ma ce la farà, come anticipavo all’inizio, la Meloni a non compromettere una vittoria che anche lei avverte a portata di mano nella corsa a Palazzo Chigi? Me lo chiedo perché la giovane leader della destra italiana -“conservatrice” come le spetta di essere riconosciuta per il nome della formazione europea che presiede, o “post- fascista” come preferiscono definirla gli avversari che ha in Italia e all’estero, dove qualcuno le dà addirittura della fascista vera e propria- si è un po' lasciata prendere la mano negli ultimi tempi.

Per non risalire a quella “pacchia” gridata in piazza a Milano contro francesi, tedeschi e olandesi che farebbero i propri comodi nell’Unione Europea ai danni di un’Italia passiva; o a quel voto congiunto con i leghisti al Parlamento di Strasburgo a favore dell’Ungheria di Viktor Orbàn a rischio di sanzioni comunitarie per l’illiberalismo che pratica nel suo paese ritenendosi unto da Dio e dagli elettori; per non risalire, dicevo, a questi due brutti precedenti, che hanno indotto Silvio Berlusconi a minacciare di non fare entrare nel suo governo i forzisti, o di farli uscire affondandolo, ho trovato francamente sbagliato l’appello che la Meloni ha fatto per una vittoria dei franchisti di Vox in Spagna sulla scia della sua in Italia.

Benedetta “Giorgia”, come ormai la chiamano un po' tutti i giornali anche se il suo cognome è ancora più corto per i titolisti, perché abbassa tanto la guardia su un versante che è già così scivoloso a casa sua, e nostra? Mi pareva sinceramente che potesse bastare quel comizio, o comiziaccio recente a vene gonfie sul collo in Andalusia. Dovrebbe pur ricordare di essere nata dopo il franchismo, oltre che dopo il fascismo.

Per ultimo, se non si spazientisce contro un vecchio cronista politico, la signora Meloni, come ogni tanto la chiama anche il suo alleato e “padre” metaforico Berlusconi, ho trovato un’autentica autorete la sua invettiva contro la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese per i fischi e anche qualche gazzarra tentata contro i suoi comizi dai soliti dissidenti in una competizione democratica.

Senza volere essere malizioso a tal punto da sospettare di eccesso voluto di zelo da parte di una ministra già nel mirino dell’alleato e concorrente della Meloni nel centrodestra che è Matteo Salvini, suo predecessore al Viminale, non mi sembrano proprio un successo per la candidata a Palazzo Chigi le manganellate e simili della Polizia nel suo comizio a Palermo.

Dio mio, signora, si e ci risparmi repliche in questi ultimi 3 - dico tre in lettere - giorni di campagna elettorale. Che poi sarebbero due considerando che già sabato non si potrà più comiziare, provocare ed essere provocati. D’altronde - e chiudo - anche il segretario del Pd Enrico Letta, forse per rimediare a quello che considero l’incidente di Berlino, dove egli è andato a farsi sponsorizzare per una minore sconfitta possibile dai socialdemocratici impegnati a denunciare il pericolo del “post- fascismo” in Italia, le ha steso in qualche modo la mano rilasciando un’intervista al Giornale della famiglia Berlusconi titolata tra virgolette, cioè con le sue parole. così: “Governa chi vince, anche se è la Meloni”. Forse una telefonata di ringraziamento sarebbe dovuta a Letta nipote da quella che pure il segretario del Nazareno ha preferito in questa campagna elettorale come la principale, se non unica antagonista.