In questa inusuale e, per certi versi, assente campagna elettorale il tema della giustizia non è stato centrale nel dibattito tra le varie forze politiche. Il Covid, la guerra in Ucraina, il caro-bollette e la crisi economica hanno avuto il sopravvento. Eppure, le questioni sul tappeto, in materia di giustizia, si intersecano con quei temi predominanti e, comunque, segneranno il quadro del nostro Paese nei prossimi anni. E ciò non soltanto perché inchieste giudiziarie (spesso poi sfociate nel nulla) hanno visto cadere Governi e travolgere storie personali; oppure perché certa politica ha provato ad incidere sulla azione della magistratura.

Vi è molto di più: vi è un interesse di ciascuno di noi e dunque di noi tutti e, estremizzando il concetto, della nostra stessa democrazia che chiunque governi il nostro Paese sappia attuare la Costituzione e garantire fino in fondo il funzionamento dello Stato di diritto. A tal fine, occorre che politica e magistratura percorrano due linee parallele, ciascuna nei suoi confini; e semmai abbiano, quali convergenze parallele ( per richiamare una nota espressione politica del passato), solo il superiore interesse nazionale.

Occorre che la prima abbandoni il populismo legislativo e la seconda il populismo giudiziario. Da un trentennio, sia pure per contrastare fenomeni particolarmente gravi e diffusi - come la corruzione, a partire dalla stagione di “mani pulite”, e la criminalità mafiosa, che ha avuto il suo culmine con le terribili stragi del 1992 - si è abbandonata la via maestra del rispetto delle garanzie e delle regole.

Penso - per il populismo legislativo - a taluni aspetti della I. 6 novembre 2012, n. 190 (c. d. legge Severino), per arrivare alla I. 9 gennaio 2019, n. 3 ( c. d. riforma Bonafede), generalmente conosciuta ( purtroppo, e non a caso) come “legge spazza- corrotti”. Penso a certe coloriture assunte da leggi in materia di “pedofilia”, con toni da diritto penale del nemico. Penso alla lunga stagione delle riforme in materia di prescrizione, prima “allungata” dalla l. 23 giugno 2017, n. 103 ( c. d. riforma Orlando), poi sostanzialmente eliminata ad opera della citata l. n. 3 del 2019, e nel frattempo “raddoppiata”, per molti reati, ad opera di altrettante leggi.

A ciò si aggiunga la recente tendenza del diritto penale a cadere nella atipicità e nella indeterminatezza, come evidenziato da disposizioni- simbolo, quali l’abuso di ufficio o il traffico di influenze illecite. E, talvolta a cascata, altre volte con effetti anticipatori, la giurisprudenza ha coltivato il pericoloso seme del populismo giudiziario. Si pensi alle contestazioni generiche, agli avvisi di garanzia “a strascico” (ad esempio, nel settore sanitario), a certe interpretazioni assai late del concorso esterno, all’uso ancora troppo esteso della custodia cautelare, al fastidio che talora serpeggia per l’attività difensiva, ai filtri spesso eccessivi in Cassazione.

Talvolta, il primato del popolo è diventato sottoposizione all’opinione pubblica; l’affermazione che “La giustizia è amministrata in nome del popolo” (art. 101 Cost.) è stata tradotta volgarmente nei processi di piazza. Del resto, qualche politico affermava che “il sospetto è l’anticamera della verità”; e un noto magistrato, ora a sua volta sottoposto a processo, dichiarava solennemente che “non ci sono innocenti, ma solo imputati dei quali non si è riusciti a dimostrare la colpevolezza”.

Ecco, vorrei che chiunque governi abbandoni quelle pericolose derive e si aggrappi alla nostra Costituzione che – in materia penale – rappresenta ancora un sicuro e condivisibile punto di riferimento. Forse non è “la più bella del mondo” (affermazione di chi la vorrebbe immutabile e cristallizzata), ma è certamente una ottima Legge fondamentale, che in molte parti non sembra avvertire l’inarrestabile scorrere del tempo. Una Costituzione, però, non ancora del tutto attuata e rispettata sino in fondo.

Basterebbe ricordare che l’art. 25 della Costituzione cristallizza il principio di legalità: la legge penale la deve scolpire il Parlamento con la dovuta precisione, senza punire retroattivamente e senza consentire la “creazione” dei reati da parte della magistratura ( in violazione del divieto di analogia in malam partem). Sembrano regole ovvie e scontate; ma purtroppo spesso non sono attuate. Poi, l’art. 27 della Costituzione fissa il principio di non colpevolezza: l’imputato non si considera colpevole sino alla sentenza definitiva di condanna. Concetto che l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo esplicita in maniera più netta: l’imputato si considera innocente, sino alla eventuale sentenza di condanna. Anche qui: sembra ovvio. Ed invece spesso si ragiona e si agisce in senso opposto, ricorrendo ampiamente alla custodia cautelare (l’art. 13 Cost. parla, più brutalmente ma più correttamente, di carcerazione preventiva...), e triturando le persone nel gorgo giudiziario e massmediatico.

Ancora, occorrerebbe riappropriarsi del finalismo rieducativo della pena, sempre scolpito nell’art. 27 della Costituzione. E ciò, sia chiaro, non per mero “buonismo”, ma perché accanto al bastone della pena, che va mantenuto, occorre utilizzare la carota della speranza, che rafforza l’ordine penitenziario e tende ad attenuare il fenomeno del recidivismo, che certifica la sconfitta dello Stato e alimenta l’insicurezza sociale ( perché il detenuto, una volta libero, commette un nuovo reato).

Inoltre, occorrerebbe attuare pienamente l’art. 111 Cost., con il processo accusatorio ed il “giusto processo”, facendo sì che ogni processo si svolga nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo e imparziale. Ovviamente, con una separazione di carriere tra giudici e pm. E poi assicurando realmente la ragionevole durata del processo e che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata “riservatamente” della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico. E occorrerebbe garantire che la persona accusata disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; che possa interrogare o far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, nonché ottenere la convocazione e l'interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell'accusa e l'acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore. Requisiti oggi non sempre assicurati.

Certo, tutto ciò non è sufficiente. Occorre, ancora, poter avere fiducia nella magistratura, nelle regole che la riguardano ( l’ordinamento giudiziario) e negli organi di controllo e di garanzia, come dovrebbe essere il Consiglio Superiore della Magistratura. Se fosse liberato dall’abbraccio soffocante delle correnti e se operasse sempre in piena trasparenza. Anche qui, sarebbero necessari cambiamenti coraggiosi e non rinviabili, mentre le varie riforme Cartabia, pur certamente meritevoli nelle intenzioni, sono state troppo tiepide e parziali. Speriamo che, chiunque vinca, abbia chiari questi valori. E soprattutto che poi sappia inverarli nel difficile compito del governare. (*Ordinario di diritto penale e già componente Csm)