Come noto, la disciplina della prescrizione del reato già oggetto delle riforme del 2005 (legge ex Cirielli), del 2017 (legge Orlando) e del 2019 (legge Bonafede) - è stata da ultimo modificata dalla riforma Cartabia. Confermata la scelta di fondo, compiuta con la Bonafede, di bloccare il corso della prescrizione del reato dopo la sentenza di primo grado, sia essa di condanna o di assoluzione: in aggiunta, l’introduzione nel codice di rito di una nuova causa di improcedibilità dell’azione penale, destinata a operare nei giudizi di appello e di legittimità. Il nuovo art. 344- bis c. p. p. stabilisce infatti che la mancata definizione del giudizio di appello entro il termine di due anni, e del giudizio di cassazione entro il termine di un anno - i termini di ragionevole durata previsti, per quei gradi di giudizio, dalla legge Pinto - «costituisce causa di improcedibilità dell’azione penale».

Immediatamente v’è chi ha rilevato una possibile stortura con i principi costituzionali nei casi in cui il soggetto nei cui confronti è stata dichiarata l’improcedibilità fosse contemporaneamente sottoposto a misura di prevenzione patrimoniale. Si è sostenuto, infatti, che con l’introduzione di tale causa di improcedibilità l’accertamento o il mancato accertamento del reato nel precedente o nei precedenti gradi di giudizio evaporerebbe, “galleggerebbe” nel nulla.

Tale convinzione deriverebbe dalla circostanza secondo cui nei casi in cui un soggetto venisse assolto in un primo grado o addirittura nei casi di doppia conforme – e parallelamente (e anticipatamente) fosse stato sottoposto a misure di prevenzione patrimoniale – tale pronuncia non verrebbe considerata dal giudice della prevenzione per dichiarare una possibile estinzione anche del provvedimento ablatorio. Secondo tali commentatori l’introduzione dell’improcedibilità, e quindi l’estinzione del processo, di fatto dovrebbe comportare l’altrettanto necessaria caducazione del provvedimento di natura ablatoria applicato in sede di prevenzione (che, come noto, per i delitti di stampo mafioso, è trai primi procedimenti ad attivarsi, ancora prima di quello penale). Eppure, un simile attentato alle garanzie di difesa non pare potersi ravvisare.

Nella Relazione illustrativa del decreto legislativo di riforma del processo penale, in attuazione della delega di cui alla legge Cartabia, si prevedrebbe l’introduzione dell’art. 578- ter c. p. p. a mente del quale “1. Il giudice di appello o la Corte di cassazione, nel dichiarare l’azione penale improcedibile ai sensi dell’articolo 344- bis, dispongono la confisca nei casi in cui la legge la prevede obbligatoriamente anche quando non è stata pronunciata condanna. 2. Fuori dai casi di cui al comma 1, se vi sono beni in sequestro di cui è stata disposta confisca, il giudice di appello o la Corte di cassazione, nel dichiarare l’azione penale improcedibile ai sensi dell’articolo 344- bis, dispongono con ordinanza la trasmissione degli atti al procuratore della Repubblica presso il Tribunale del capoluogo del distretto o al procuratore nazionale Antimafia competenti a proporre le misure patrimoniali di cui al titolo II del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. 3. Il sequestro disposto nel procedimento penale cessa di avere effetto se, entro novanta giorni dalla ordinanza di cui al comma 2, non è disposto il sequestro ai sensi dell’articolo 20 o 22 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159”.

Ad escludere quella sorta di pregiudiziale tra l’esito del procedimento di merito e la pendenza di quello di prevenzione è proprio la natura dell’improcedibilità di cui alla riforma Cartabia. La dichiarazione di improcedibilità nei giudizi di impugnazione rispetto ad una ipotetica precedente sentenza di assoluzione (da capire poi con quale formula, atteso che l’accertamento del merito di un’assoluzione piena o ex art. 530 comma II è ben differente!) ovvero di condanna, comporterebbe, nei fatti, l’impossibilità di proseguire l’azione penale e, dunque, la “consumazione” dello stesso potere di decidere del giudice sul merito dell’imputazione. Dunque, non ci sarebbe nessun giudizio di merito da far valere nei confronti del giudice della prevenzione, il quale proseguirebbe autonomamente.

In definitiva, come opportunamente rilevato dall’Ufficio del Massimario presso la Suprema Corte, se in presenza di una causa di estinzione del reato il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell’art. 129, comma secondo, c. p. p. soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell’imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, diversa è l’ipotesi in cui sussista, invece, una causa di improcedibilità dell’azione penale. Secondo il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite Martinenghi, la mancanza di una condizione di procedibilità osta, infatti, a qualsiasi altra indagine in fatto ( Sez. U, n. 49783 del 24/ 09/ 2009, Rv. 245163).

Sulla base di tale principio potrebbe, dunque, ritenersi che, ove sia maturato il termine di durata del giudizio di impugnazione, al giudice sia ormai preclusa la possibilità di emettere una sentenza di proscioglimento dell’imputato secondo una delle formule contemplate dall’art. 129, comma 1, cod. proc. pen., trattandosi, comunque, di una pronuncia sull’azione penale che ne presuppone la procedibilità e la possibilità di esaminare il merito dell’imputazione. (*AVVOCATO, DIRETTORE ISPEG)