Proprio sul finire della campagna elettorale anche Giorgia Meloni inizia a dare segnali palesi di nervosismo. Le accuse rivolte a tutti e ciascuno, governo, media e istituzioni di attaccare sistematicamente il suo partito, quella, ancora più grave e rivolta direttamente alla ministra degli Interni di "consentire scientificamente provocazioni" sono un sintomo evidente di quel nervosismo. Basti fare il paragone con la maestria dimostrata dalla stessa leader di Fratelli d'Italia quando, poche settimane fa, un manifestante salì sul palco per interrompere un suo comizio: la distanza è abissale, la differenza eloquente.

Il vittimismo è certamente anche una tattica elettorale alla quale hanno prima o poi fatto ricorso nel tempo un po' tutti. Quando, al governo, il centrosinistra aveva immensa influenza non perdeva occasione per denunciare l'assedio mediatico al quale lo sottoponevano le tv di Berlusconi, fingendo di credere sul serio che il segreto del successo del Cavaliere fossero le sue tv. A destra però il vittimismo è da sempre uno strumento eminente, e dunque usato spesso a man bassa, per calamitare consensi. La visibile tensione della leader indica però che non c'è solo il proverbiale vittimismo elettorale in gioco ma anche, evidentemente, la paura che l'affondo su Orbàn della controparte eroda qualche consenso rendendo la sua vittoria meno netta, e dunque più traballante, di quanto non sembrasse destinata a essere.

In ogni caso, che si tratti di fredda tattica elettorale o di ribollenti nervi, il vittimismo della leader della destra è in questo caso privo di fondamento. Gli attacchi ci sono e non si può negare che soprattutto il Partito democratico ricorra a un ormai abituale tentativo di delegittimare l'avversario per il suo dna più che per le sue proposte, dal putinismo di Salvini all' "orbanismo" di Meloni.

Ma è altrettanto vero che la virulenza dell'offensiva non è neppure lontanamente paragonabile alle tempeste che per vent'anni si sono puntualmente scatenate su Silvio o sul clima da camicie brune alle porte che aveva raggiunto nel 2018- 19, gli anni dorati di Salvini, vette di pura isteria. Al contrario, l'argomento più facile e di più immediata presa sugli elettori, la discendenza di Fratelli d'Italia dal partito neofascista, dal Movimento Sociale italiano, è stata chiamata in causa con massima parsimonia, come notava due sere fa in televisione Paolo Mieli. A puntare il dito contro la leader ' postfascista' è stato solo il leader della Spd tedesca Lars Klingbeil, con toni che in Italia Letta non ha mai usato.

È possibile che, all'inizio della campagna elettorale, il segretario del Partito democratico avesse in mente una strategia opposta: questo almeno suggeriscono quei manifesti divisi in una metà nera e una rossa apparsi nelle prime settimane. Però ha sterzato presto, forse anche perché gli altri rivali della destra, sia il Terzo Polo che i 5S non lo avrebbero seguito su quella strada. Possono esserci altre considerazioni per spiegare quel limitatissimo ricorso al richiamo dell'antifascismo che Mieli sembra rimproverare a Letta.

La sensazione che, dopo i decenni del "Cavaliere Nero" e l'orgia del 2018 l'arma fosse ormai spuntata, forse anche controproducente. La consapevolezza di dover dopo le elezioni dialogare con Meloni sulla riforma delle istituzioni e di non poterlo fare dopo averla tacciata apertamente di neofascismo. Certamente ha inciso la vicinanza tra i due partiti sul fronte principale, quello dell'atlantismo. Da quel punto di vista, tanto per Washington quanto per Bruxelles, la leader tricolore è molto meglio di quello leghista.

Ma qualunque siano le motivazioni di Letta e degli altri leader in competizione, l'elemento è destinato a segnare uno spartiacque politico. Da trent'anni la politica italiana si affida al passato per delegittimare l'esistenza stessa dell'avversario ricorrendo a una grottesca messa in scena del Novecento. Berlusconi ha brandito l'anticomunismo come se i Ds e poi il Pd fossero il Pci di Pietro Secchia. L'accusa di essere una improbabile reincarnazione del duce è stata dispensata senza alcun discernimento. Gli appelli alla Resistenza hanno oltrepassato spesso il confine del farsesco. Il Novecento è stato brandito come strumento contundente per picchiare nella lotta politica del presente.

Se nessuno cederà a pessime tentazioni, una campagna elettorale combattuta senza saccheggiare gli arsenali desueti del Novecento, nonostante la presenza in postazione privilegiata di un partito di fatto erede del Msi, potrebbe essere un passo decisivo nel liberarsi dall'eredità ormai soffocante di quel secolo tragico. È un bene che sia così, indipendentemente da chi ne tragga vantaggio. È un affrancamento dal passato non opportuno ma necessario. Però aggiungerci anche un carico di lamentoso e infondato vittimismo è invece del tutto fuori luogo.