di Marco Bouchard*

Il processo penale è particolarmente lastricato di occasioni che possono indurre il magistrato al pregiudizio, prigioniero di qualche bias irrisolto. Proprio per questo il codice di rito è disseminato di rimedi per disinnescare il pericolo d’inciampo. La previsione di un invio d’autorità dell’accusato tra le braccia dei mediatori (art. 129 bis c. p. p.) persegue un palese obiettivo deflattivo, tutte le volte che sia auspicabile una definizione anticipata nell’interesse dell’imputato. Quella norma ha certamente uno spirito paternalistico e, a dirla tutta, non credo piaccia molto neppure ai puristi della giustizia riparativa. Ma ci sono precise disposizioni (artt. 48, 54 e 58 del decreto) destinate ad escludere conseguenze negative derivanti dal fallimento di quell’invio.

Poteva essere più coerente ricalcare il meccanismo utilizzato per la sospensione del processo con messa alla prova, lasciando al solo imputato (e ora anche al pubblico ministero) la facoltà di formulare la richiesta di accedere ad un programma riparativo. Si è voluto percorrere la strada dell’incentivo, esportando dall’economia comportamentale e dalla filosofia politica la tecnica del nudge, la spintarella gentile, che ci ha indicato nuove prospettive nel descrivere i margini effettivi di libertà dell’individuo (Thaler e Sunstein, Nudge. La spinta gentile, 2009). Il processo penale deve essere luogo aperto alle trasformazioni positive. Non è - ammesso che lo sia mai stato - un luogo sacro: sacro può esserlo l’imputato o il condannato e non mi pare che questo decreto ne calpesti i diritti.

Trovo però sintomatico che, di fronte ad una disciplina organica della giustizia riparativa che “si affianca, senza sostituirsi, al processo penale, nell’interesse della vittima di reati” (comunicato ufficiale del Ministero della giustizia, 5 agosto 2022), finora nessuno abbia commentato l’art. 129 bis c. p. p. rispetto al ruolo dell’offeso. Il giudice, infatti, in vista dell’invio è tenuto a sentire le parti e i difensori nominati. Non la vittima. Curiosa asimmetria, posto che il luogo di destinazione presuppone la pari dignità dei protagonisti del fatto. Ancor più preoccupante è la spiegazione offerta dalla Relazione allo schema di decreto: “non appesantire eccessivamente il procedimento onerando il giudice della ricerca della vittima e della sua audizione”: una pietra d’inciampo, certo non un soggetto di diritti. Ci sarà, dunque, per questa via, un programma di giustizia riparativa senza vittima? E nell’interesse di chi?

L’ipotesi è tutt’altro che remota perché il decreto apre l’ingranaggio del programma riparativo ad una “vittima di un reato diverso da quello per cui si procede”: una vittima surrogata, sostitutiva di quella che ha patito l’offesa. Sarebbe un valore aggiunto – sostiene la Relazione – e la prova sarebbe fornita dal caso della vittima di un reato commesso da ignoti “alla quale, di tutta evidenza, la giustizia penale non ha nulla da offrire”. Peccato che i procedimenti contro ignoti si chiudono rapidamente con un’archiviazione e non credo che un pubblico ministero, non potendo offrire giustizia, abbia il coraggio di imporre alla persona offesa un incontro con un autore – questo sì – aspecifico, surrogato, sostitutivo. In realtà l’interesse che qui si persegue non è quello della vittima ma quello dell’accusato o del condannato quando la persona da lui offesa non sia disponibile, non si trovi, sia scomparsa o deceduta.

In sede di audizione ho invitato i membri della commissione ministeriale a condizionare quest’ipotesi al consenso della vittima diretta e, almeno, ad una valutazione che escluda il rischio di una seconda vittimizzazione. Non sono stato convincente. Forse bisognerebbe rileggere il dialogo tra Ivan e Alëša Karamazov sulla sofferenza dei bambini o le pagine di Vladimir Jankelevitch sul perdono concesso dagli ebrei. “Si può perdonare – ha ribadito il concetto un po’ di tempo fa Claudio Magris – solo in nome proprio, per i torti fatti a noi, non ad altri, neppure se ci sono cari come la vita”.

Si creano, dunque, presupposti preoccupanti rispetto alla finalità dichiarata di sviluppare una giustizia riparativa anche nell’interesse della vittima. Inoltre, una persona offesa, eventualmente in nome d’altri, parteciperà a dialoghi riparativi (più o meno allargati “a componenti della comunità”) anche se l’accusato o il condannato non avrà riconosciuto i fatti per cui è in corso un procedimento penale. È uno strano silenzio, questo, su uno dei presupposti indefettibili per l’accesso ai programmi riparativi, secondo quanto prevedono la lettera c) dell’art. 12 della Direttiva 2012 e l’art. 30 della Raccomandazione 2018: il riconoscimento dei fatti essenziali ( o principali) del caso.

È certamente un limite della legge delega a cui il governo si è conformato. Ma è un’anomalia tutta italiana perché tutti i paesi europei che disciplinano la giustizia riparativa impongono quel presupposto (Dünkel e altri, Restorative justice and Mediation in Penal Matters, 2015). E, soprattutto, l’art. 12 della Direttiva è una tipica norma self- executing: avvocati, magistrati e operatori s’incaricheranno di riempire questo buco. (*già magistrato, Presidente di Rete Dafne Italia)