Fare chiarezza su eventuali rapporti torbidi tra alcuni partiti europei e la Russia di Putin è in sé certamente necessario e giusto. L'uso elettorale della vicenda invece non lo è affatto. Difficile, anzi impossibile affermare con certezza che la tempistica delle rivelazioni americane è stata studiata per cercare di indebolire i partiti sospetti di simpatie per Putin in un Paese chiave, ma anche sempre “sorvegliato speciale”, come l'Italia. Di certo però così è stata recepita, assunta e adoperata la faccenda in casa nostra.

I problemi sono diversi. «Al momento», come comunica il presidente del Copasir Urso, FdI, non risultano nomi italiani nella black list. Sarebbe meglio attendere che spuntassero, con date e circostanze ben chiare, invece di sparare alla cieca. Ma quegli eventuali fondi, peraltro non oceanici se si parla di 300 milioni per 24 Paesi e qualcosina in più quanto a partiti, come assicura il non disinteressato Di Maio, che essendo ministro degli Esteri e non solo candidato nei guai dovrebbe usare maggiore compostezza, vogliono dire fino a un certo punto, dal momento che importante è la vicinanza politica che nel passato e per la Lega anche nel passato prossimo è stata alla luce del sole.

Non è un buon modo di fare propaganda elettorale e rischia fortemente di essere anche controproducente: un boomerang. Alle origini della crisi, per dirne una, c'è proprio l'errata convinzione che il M5S non potesse astenersi dal voto sul dl Aiuti e che Lega e Fi non potessero incunearsi in quel varco perché non avrebbero «osato far cadere Draghi». Nella prima parte di questa campagna elettorale, accelerata come nelle antiche campagne elettorali, l'accusa di «draghicidio» e l'agenda Draghi come vessillo sono state le armi con cui Pd e Terzo Polo hanno cercato di rimontare lo svantaggio e cacciare dall'arena politica Conte, il “draghicida” per eccellenza. Poi, soprattutto il Pd, ha capito che quella strada era un vicolo cieco e ha cambiato corsia in piena corsa riproponendosi come partito “di sinistra”. Ma la dinamica di una propaganda giocata sull'accusa di “intelligenza col nemico” è della stessa pasta.

In entrambi i casi, infatti, si ricorre al tentativo di sconfiggere gli avversari non per quello che dicono o propongono ma delegittimandoli per quello che sono e negano di essere. È una via spesso battuta e mai con vero successo: contro Berlusconi “il Caimano”, contro i 5S “populisti”, contro Salvini “razzista”, contro Meloni “fascista”. Ora contro diversi partiti, e c'è da scommettere che nel calderone tornerà anche senza problemi di finanziamenti oscuri pure Conte, “putiniani”. In parte sono armi spuntate perché non in grado di incrinare la scelta degli elettori e il consenso dei denunciati, vista la palese strumentalità. Lo stesso Salvini, l'unico in apparenza affondato da una campagna di delegittimazione, ha in realtà provveduto da solo con una raffica di errori madornali. Il plotone d'esecuzione politico-mediatico lo aveva in realtà innalzato al 30 per cento e passa.

Le campagne di delegittimazione hanno però altri obiettivi. Per quanto spesso inetti, i leader politici hanno ormai imparato dalle esperienze precedenti che con quel metodo voti all'avversario non se ne tolgono. La chiamata alle armi è per il proprio elettorato, al quale si chiede di fatto di perdonare le moltissime delusioni e disillusioni puntualmente inflitte dai rappresentanti ai rappresentati in nome di una santa causa. A volte funziona, a volte no ma è comunque uno strumento del tutto legittimo e comprensibile di propaganda elettorale.

Meno limpido il secondo obiettivo, che consiste nello squalificare i rivali ed eventuali vincitori negli ambienti che contano, soprattutto quelli esteri. La convinzione, probabilmente fondata, è che gli elettori italiani possono pure fregarsene di qualche sospetto di aiutini moscoviti o di più o meno antiche passioni per lo zar ma la reazione sarà ben diversa a Washington e Bruxelles. Il che non incide sull'esito delle urne ma sul prosieguo spesso sì. È un metodo che imbastardisce la competizione politica, dissemina sfiducia nei confronti delle elezioni come strumento eminente della democrazia e dunque nella democrazia stessa. E alla lunga rafforza proprio chi si vorrebbe contrastare. In fondo se qualcosa accomuna il Berlusconi dei tempi d'oro, l'ondata dei 5S, la meteora Salvini e ora la Sorella d'Italia è proprio che tutti, ciascuno declinandolo a modo proprio, ha promesso e promette di restituire all'Italia autonomia e ai suoi elettori potere reale di scelta.